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Martedì 23 Aprile 2024
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LA BANDA
Commedia
di Eran Kolirin
con Ronit Elkabetz, Sasson Gabai, Saleh Bakri
90 minuti - Francia, Israele 2007

L' idea semplicissima ma vincente dell' esordiente israeliano Eran Kolirin e del suo film La banda è quella di mettere ebrei e arabi uno di fronte all' altro senza niente di quello che solitamente li divide. Senza muri, bombe, carri armati, reticolati o frontiere varie. Costringendoli a qualche cosa - dialogare, confrontarsi, anche solo guardarsi negli occhi - a cui non sembrano più abituati. E di cui la storia degli ultimi decenni ha cancellato l' abitudine. Qualche cosa che oggi può sembrare folle e anacronistico e che invece dovrebbe essere la cosa più semplice del mondo. A ricordarcelo sono gli otto componenti dell' Alexandrìa Police Cerimonial Orchestra che un giorno si trovano abbandonati sul marciapiede di un aeroporto israeliano. Sono musicisti egiziani, invitati a suonare all' inaugurazione di un centro culturale arabo in terra israeliana, ma nessuno è venuto ad accoglierli. E quando decidono di fare da soli, perché «da venticinque anni abbiamo saputo fare a meno di un manager», sbagliano tragicamente destinazione. Sarà colpa della lingua locale non proprio padroneggiata, sarà colpa degli occhi dell' impiegata che stregano il giovane Khaled (incaricato di acquistare i biglietti per via della sua - approssimativa - conoscenza dell' inglese), sarà colpa dell' assonanza tra i nomi, fatto sta che gli otto suonatori si ritrovano a Bet Hatikva mentre invece li aspettano a Petah Tikva. E la sfortuna vuole che Bet Hatikva sia un agglomerato di casermoni nel deserto, decisamente inospitale e soprattutto pessimamente servito dai pullman, che si fermano lì una volta sola al giorno. Poteva nascerne un dramma in chiave neorealista, il resoconto di uno scontro interetnico dove la diversità razziale diventava ostilità e anche peggio. E invece Kolirin (a cui si deve anche la sceneggiatura) smorza qualsiasi elemento di tensione per raccontare tutto con la sospensione un po' incredula dell' osservatore «oggettivo», ma anche con la partecipazione emotiva del sottile umorista. Scomponendo l' azione in tante piccole scene chiuse in loro stesse, dove i silenzi sono importanti almeno quanto le (poche) parole, la regia utilizza a proprio favore il tema della difficoltà di comunicazione tra ebrei ed egiziani facendone la chiave del suo approccio alle cose: un intreccio di lingue - ebreo, arabo, inglese - che sottolinea il bisogno di «mettere da parte» la propria identità nazionale, una distanza verso l' altro che diventa immediatamente curiosità, un gioco di silenzi che nasconde (nemmeno troppo) gli stessi stati d' animo e delle stesse emozioni. Così l' incontro con Dina (Ronit Elkabetz), la padrona del bar che prima accetta di sfamare i poveri musicisti e poi si attiva per trovar loro una sistemazione per la notte, diventa il simbolo di un rapporto che la cronaca si incarica ogni giorno di smentire (il film, coprodotto con capitali israeliani, statunitensi e francesi è stato boicottato dall' Egitto) ma che il cinema può tentare di rivendicare con forza e convinzione. E la lezione di seduzione fatta senza parole tra il musicista innamorato di Chet Baker (Saleh Bakri) e il timidissimo Papi (Shlomi Avraham) non solo è un autentico vertice di comicità ma anche la dimostrazione che tra arabi e israeliani non esistono poi così tante differenze. Scegliendo di ambientare il suo film in un oggi senza precise coordinate temporali e mascherando al massimo quelle geografiche, Kolirin può permettersi di sfumare un presente di scontri e odii per immaginare una specie di «limbo» delle identità nazionali dove la concretezza delle esperienze personali è l' unica vera specificità da rivendicare: le relazioni male assortite di Dina o la perdita del figlio e della moglie per Tewfiq (Sasson Gabai) diventano immediatamente terreno di incontro e di reciproca comprensione. Che la regia si incarica di raccontare senza melensaggini ma con un umorismo astratto e pungente. Torna in mente addirittura la «faccia di pietra» di Buster Keaton per spiegare la comicità senza tempo che Gabai mette in campo, quando cerca invano di nascondere dietro il più compunto dei silenzi il proprio imbarazzo di straniero orgoglioso e insieme totalmente impotente e spaesato. Così, quando cerca di spiegare alla scettica Dina il fascino della pesca, perché solo nel silenzio che ti permette quell' attività riesce ad accorgersi che «tutti i rumori della natura finiscono per formare un' unica, spontanea sinfonia», e subito dopo aggiungere che i pochi pesci che cattura li ributta in mare perché a casa non c' è più nessuno che li cucina, da spettatore ti convinci che il cinema sa ancora raccontare i segreti più nascosti degli esseri umani. E che, se nel deserto della finzione otto suonatori egiziani sono riusciti a far amicizia con i frequentatori di un bar, forse tra le tante contraddizioni della realtà c' è ancora posto per un sogno di pace.
Paolo Mereghetti (Corriere della Sera)
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