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// --- INTRODUZIONE
// --- ------------
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"FERITOIA PER LA LUCE DELLA SPERANZA
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"Una mostra nell’anno del Giubileo che ha come tema quello della speranza.
Una mostra (e un Giubileo sulla Speranza) in un tempo ferito. Sono ferite l’acqua, l’aria, la terra. Sono feriti i popoli: ancora oggi la ferita della guerra lacera la convivenza. Sono feriti i cuori delle persone: l’inquinamento dei pensieri, delle parole, dell’animo genera lacerazioni a volte di una violenza inaudita. Sono feriti i giovani: coloro che dovrebbero essere fiaccole di speranza gemono di fronte ad un ideale di perfezione che sembra non dare scampo a moltissimi. In merito ai giovani mi piace riportare le parole del papa al n. 12 della bolla di indizione dell’anno giubilare “spes non confundit”: “Di segni di speranza hanno bisogno anche coloro che in sé stessi la rappresentano: i giovani. Essi, purtroppo, vedono spesso crollare i loro sogni. Non possiamo deluderli: sul loro entusiasmo si fonda l’avvenire. È bello vederli sprigionare energie, ad esempio quando si rimboccano le maniche e si impegnano volontariamente nelle situazioni di calamità e di disagio sociale. Ma è triste vedere giovani privi di speranza; d’altronde, quando il futuro è incerto e impermeabile ai sogni, quando lo studio non offre sbocchi e la mancanza di un lavoro o di un’occupazione sufficientemente stabile rischiano di azzerare i desideri, è inevitabile che il presente sia vissuto nella malinconia e nella noia. L’illusione delle droghe, il rischio della trasgressione e la ricerca dell’effimero creano in loro più che in altri confusione e nascondono la bellezza e il senso della vita, facendoli scivolare in baratri oscuri e spingendoli a compiere gesti autodistruttivi. Per questo il Giubileo sia nella Chiesa occasione di slancio nei loro confronti: con una rinnovata passione prendiamoci cura dei ragazzi, degli studenti, dei fidanzati, delle giovani generazioni! Vicinanza ai giovani, gioia e speranza della Chiesa e del mondo!”
Quest’anno la mostra vuole stare in mezzo a queste due coordinate: il Giubileo sulla speranza e il nostro tempo ferito e indebolito nella speranza. La mostra tra questi due estremi ha la pretesa di metterli in comunicazione. La mostra ha il coraggio di porre questa domanda a chi la visiterà: una ferita può essere feritoia? Da una ferita può intravedersi una luce? Da una ferita può venire un “respiro di vita” che dia speranza a questo tempo confuso e affannato?
Il giubileo è rimando a Gesù crocifisso, al suo corpo ferito. Da questa ferita possiamo ancora decifrare una parola che noi cristiani possiamo condividere con gli uomini e le donne del nostro tempo?
La mostra di quest’anno è ricerca di questa parola. La cerca nell’arte, in quella tipicamente religiosa e in quella che si pone al di fuori dei consueti canoni artistici. Con questo atteggiamento di ricerca, la mostra di quest’anno cerca di obbedire docilmente alle indicazioni che il papa scrive nella bolla di indizione dell’anno giubilare “spes non Confundit” al n.7: “Oltre ad attingere la speranza nella grazia di Dio, siamo chiamati a riscoprirla anche nei segni dei tempi che il Signore ci offre. Come afferma il Concilio Vaticano II, «è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche». È necessario, quindi, porre attenzione al tanto bene che è presente nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci sopraffatti dal male e dalla violenza. Ma i segni dei tempi, che racchiudono l’anelito del cuore umano, bisognoso della presenza salvifica di Dio, chiedono di essere trasformati in segni di speranza”.
La mostra di quest’anno ricerca speranza nel segno delle ferite. Impresa ardua? La luce del corpo risorto che mostra le ferite dicendo “pace a voi” incoraggia a intraprendere questa impresa.
La mostra di quest’anno è giubilare: con gioia invita a cercare una speranza! E a cercarla nella disperazione delle ferite del nostro tempo.
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txtBiogr[index] = "" +
"RIFLESSIONI E DESCRIZIONE ARTISTICA OPERE
Testi tratti da Wikipedia e dalle bibliografie correnti di vari autori e dal libro “La Croce e il Volto” di Andrea dell’Asta – (ed. Áncora)
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// --- OPERA 01
// --- --------
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"La ferita è soltanto maledizione? Nella mitologia greca, Venere nasce da un gesto di violenza cioè dall‘evirazione di Urano da parte del figlio Cronos. Nella Bibbia stessa l‘umanità trova la sua origine in una ferita: la creazione di Eva nasce da Adamo a cui viene strappata una costola durante il sonno. Da qui nasce la consapevolezza che la ferita non è solo maledizione ma che da essa può avere origine la bellezza. La ferita allora spaventa e attira allo stesso tempo. La ferita è ciò che sconvolge il quadro della vita ordinaria di una persona e che può imprimere ad essa una svolta, pur nel dolore. Può essere percepita come potenza oscura e luminosa, affascinante e spaventosa. A volte per cambiare siamo consapevoli che dobbiamo subire o imprimere una ferita a noi stessi, ma questa consapevolezza non ci fa desistere dal voler quel cambiamento e dal porlo in atto. Noi uomini a volte ci sentiamo deboli e ci definiamo una nullità ma lo stesso tempo abbiamo desiderio di andare oltre questa sensazione consapevoli del rischio che si corre. Allora la ferita può diventare occasione di crescita umana e personale. Consapevoli delle nostre ferite abbiamo la possibilità di essere empatici: La mia ferita diventa porta di accesso alla vita (ferita) degli altri.
Tuttavia, la ferita può diventare occasione di crescita umana personale. Infatti, solo quando prendiamo consapevolezza delle nostre ferite, possiamo realmente entrare nel dolore altrui. La mia ferita diventa allora la porta d‘accesso attraverso cui la mia vita può essere accolta nel profondo dell‘esistenza dell‘altro. Solo da questa accoglienza può nascere la reciprocità di un prendersi cura.
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txtTesto[index] = "" +
"Impossibile non conoscerla: la Nascita di Venere (1485 ca., Firenze, Uffizi) è una delle opere più ammirate ed emblematiche del Rinascimento italiano.
Nella Nascita di Venere di Botticelli, la dea appare in tutta la sua grazia. È a figura intera, al centro del dipinto, nuda, con la pelle d’avorio e il corpo attraversato da ombre appena accennate. La mano destra appoggiata al seno con gesto pudìco, la mano sinistra sul pube trattiene una ciocca dei capelli lunghissimi mossi dal vento. La testa leggermente reclinata, l’espressione del volto dolce e mite. In equilibrio è posta sul bordo di una conchiglia che la conduce fino all’approdo sull’isola di Cipro. Nella stessa figura coesistono moto e quiete: al corpo statuario e alla posa stante fanno da contrappunto i capelli che ondeggiano in mille ciocche dorate, la delicata conchiglia che si muove spinta dal vento e dalle onde diventa un solido appoggio sotto ai suoi piedi. Il contrasto con il verde e l’azzurro dello sfondo esalta la sua apparizione. Il corpo appare fortemente inclinato verso (la sua) sinistra: le spalle scese, il braccio allungato sul fianco e la testa reclinata ne accentuano la flessuosità.
La giovane donna che accorre a porgere il manto fiorito alla dea pone qualche dubbio. Oggi si tende a riconoscere in lei l’Ora della Primavera. Tuttavia non mancano, tra gli esperti, riferimenti a una delle Grazie o a Peito, comunemente descritte o rappresentate nelle fonti antiche mentre accompagnano Afrodite nascente. I fiori, e in particolare il mirto (simbolo di rinnovamento) e le rose (nate con la dea), sono significativi, ma non aiutano a dirimere la questione, poiché compatibili con tutte queste alternative. Alle spalle della fanciulla, si snoda la costa, fino all’orizzonte. Lo sfondo, dominato dal paesaggio marino, è occupato sulla destra da un boschetto di aranci, possibile richiamo ai Medici (erano chiamate infatti mala medica, pianta medica), tra i committenti papabili dell’opera.
Nell’angolo a sinistra della Nascita di Venere di Botticelli due venti dalle sembianze umane volano allacciati l’uno all’altra, le ali spiegate e i pochi panneggi ondeggianti. Soffiano con forza verso la dea lasciandoci intuire la direzione del moto. Sono Zefiro e Aura, un vento fresco e fecondo che si lascia abbracciare da uno tiepido e avvolgente.
Il moto che parte da queste due figure si manifesta nell’increspatura sottile delle onde e nel vortice di fiori che li circonda.
A destra, sulla costa frastagliata dell’isola accorre l’Ora della primavera. Il suo vestito chiaro, trapuntato di fiordalisi, è stretto in vita da un ramo di rosa. Il mantello rosso che porge alla dea è decorato con primule e rametti di mirto e si gonfia per effetto del soffio che giunge dal lato opposto. La composizione semplice esalta la sacralità della figura. Un evento miracoloso si è da poco compiuto, la spuma del mare, fecondata dal seme di Urano, ha generato una nuova dea e lei ora si manifesta al mondo. Gli studiosi hanno rilevato come le tinte fredde, quasi pastellate, della tela – insieme alle sue dimensioni imponenti (172,5 x 278,5 cm) – la rendano più simile a una pittura parietale. In altre parole, la Venere di Botticelli doveva simulare un affresco, collocato probabilmente a non troppa distanza dal pavimento. La disposizione simmetrica richiama visivamente scene cristologiche come quella del battesimo e anche se l’accostamento può oggi sembrare blasfemo così certamente non doveva apparire nel momento più alto del Rinascimento fiorentino.
Chi è la Venere di Botticelli? Non si tratta di una donna immaginata dall’artista ma di Simonetta Vespucci, una giovane di cui Giuliano De Medici si dice fosse follemente innamorato. Sembra che anche Botticelli si fosse innamorato della modella che lavorò anche per altri pittori e che era tenuta in gran considerazione sia per la sua bellezza che per la sua intelligenza.
Nel 1987 si è concluso il restauro della Nascita di Venere, condotto magistralmente da Alfio Del Serra. Un’attività volta a migliorare le condizioni di conservazione del dipinto e a ripristinare il più possibile l’aspetto originale, attenuando gli effetti del tempo e dei maldestri interventi successivi. Il pubblico ha così potuto apprezzare meglio l’armonia compositiva, i colori e il tratto sottile ed elegante caratteristico di Botticelli, godendo appieno dell’opera.
Alcuni aspetti curiosi sono inaspettatamente emersi durante le analisi di riflettografia infrarossa, rivelando la presenza di correzioni, di natura stilistica, nella fase preparatoria del dipinto: modifiche alla dimensione degli occhi della Venere e del busto di Zefiro. Il ripensamento più importante, però, riguarda il generale dinamismo della scena che – secondo il disegno iniziale – avrebbe dovuto apparire molto meno movimentata. Le gote del dio del vento appaiono meno piene, il manto portato dalla fanciulla meno gonfio e i capelli di Venere meno scomposti. Quest’ultimo dettaglio lascia pensare che Botticelli, nella fase conclusiva del dipinto, possa averlo rivisto anche perché influenzato dal già citato scritto di Leon Battista Alberti, che raccomandava appunto di raffigurare i capelli mossi in ogni direzione dal vento.
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txtBiogr[index] = "" +
"Se pensate al Rinascimento e lo collegate ad un’opera probabilmente vi verrà in mente la Gioconda di Leonardo, il capolavoro più famoso. Ma se vi chiedessero di pensare ad un’opera che esprima più di tutte lo spirito del Rinascimento forse è nella Nascita di Venere di Sandro Botticelli che trovereste la risposta. Osservarla significa intraprendere un viaggio in mondi lontani, in un’Arcadia che non è mai stata, se non nei testi dei filosofi antichi, dove gli uomini sono saggi e forti e le donne bellissime e delicate come fiori. È questo lo spirito del Rinascimento, un’eterna primavera che Botticelli è stato in grado di cogliere e rendere immortale. Sandro Botticelli (1445-1510), pittore fiorentino, è stato uno dei grandi interpreti della stagione del Rinascimento italiano. Il cognome “Botticelli” deriva dal nomignolo che fu affibbiato al fratello di Sandro, Giovanni, e che fu poi esteso a tutti i maschi della famiglia. Dal 1464 al 1467 lavorò come apprendista presso la bottega di Filippo Lippi. A quel periodo si possono ricondurre molte delle sue Madonne, uno dei soggetti privilegiati dal giovane Botticelli (es. Madonna col bambino e due angeli, dipinto del 1468). Quello di Botticelli può considerarsi un talento precoce. Già a 26 anni il giovane artista riuscì a mettersi in proprio per aprire una bottega tutta sua. Negli anni Settanta del Quattrocento, Sandro Botticelli si avvicinò ai principi dell’Accademia Neoplatonica, istituzione fondata da Cosimo de ‘Medici, patriarca della storica famiglia fiorentina. L’Accademia giocò un ruolo chiave nel definire la filosofia rinascimentale, con la riscoperta degli autori del mondo classico, della mitologia greca e di una rinnovata concezione dell’uomo, posto nuovamente al centro dell’universo. L’adesione al classicismo permise a Sandro Botticelli di essere ammesso alla corte di Lorenzo il Magnifico che gli commissionò varie opere: la più famosa è L’adorazione dei Magi (dipinto del 1475). Nel dipinto Botticelli ritrasse i membri della famiglia Medici nei panni dei protagonisti dell’opera (era una consuetudine all’epoca inserire il committente nel dipinto). Ciò che non tutti sanno però è che il volto del ragazzo alla destra del dipinto che guarda l’osservatore con aria di sfida pare sia un autoritratto dell’artista. È negli anni Ottanta del Quattrocento che Botticelli dipinse i suoi capolavori più noti: La primavera e La nascita di Venere (1482-1485). È possibile ammirare entrambe le opere agli Galleria degli Uffizi di Firenze. A dire il vero la bellissima Venere di Botticelli in realtà non è un esempio di bellezza perfetta: non ha scapole, né sterno, il busto è troppo lungo e l’ombelico è troppo in alto. Probabilmente, se fosse reale, non sopravvivrebbe a lungo. Ma chi fa caso a questi dettagli al cospetto di un volto e uno sguardo di incomparabile bellezza? In effetti, ciò che colpisce dei dipinti di Sandro Botticelli è la ricerca continua di una bellezza e di una grazia perfette. Le sue opere sono intrise di un lirismo che rendono i soggetti più simili a creature di un mondo ideale, piuttosto che a rappresentazioni fedeli della realtà. Forse non tutti sanno che anche Sandro Botticelli diede il suo contributo nell’affrescare la Cappella Sistina. Nel 1480 fu inviato a Roma da Lorenzo il Magnifico insieme agli artisti Cosimo Rosselli, Domenico Ghirlandaio e Pietro Perugino, come “ambasciatori” dell’arte fiorentina. I quattro avevano il compito di affrescare le pareti della Cappella con dieci scene raffiguranti le Storie della vita di Cristo e di Mosè. Botticelli realizzò tre affreschi che, sebbene siano considerati opere di grande pregio artistico, non vengono annoverati tra i capolavori dell’artista fiorentino. La vita di Sandro Botticelli cambiò bruscamente con la caduta dei Medici e la presa del potere del frate Girolamo Savonarola nel 1494. L’artista mise da parte i soggetti mitologici per dedicarsi all’arte sacra. Pare fu preso da un vero e proprio fervore religioso che, almeno stando a quanto scrisse lo storico dell’arte Giorgio Vasari, lo spinse a bruciare alcune delle sue opere più datate, lanciandole in quei roghi noti come “falò delle vanità” in cui i seguaci di Savonarola bruciavano ciò che ritenevano sacrilego o scabroso. Benché considerato dai fiorentini un artista di riguardo, negli ultimi anni di vita Botticelli cadde in disgrazia. Le sue opere persero valore, surclassate da quelle di Michelangelo e Leonardo, assolutamente innovative e rivoluzionarie per l’epoca. Botticelli morì nel 1510, isolato e in povertà. I suoi capolavori vennero completamente dimenticati per oltre tre secoli, per essere riscoperti solo nell’Ottocento.
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// --- OPERA 02
// --- --------
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txtTitolo[index] = "Creazione di Eva";
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"La ferita è soltanto maledizione? Nella mitologia greca, Venere nasce da un gesto di violenza cioè dall‘evirazione di Urano da parte del figlio Cronos. Nella Bibbia stessa l‘umanità trova la sua origine in una ferita: la creazione di Eva nasce da Adamo a cui viene strappata una costola durante il sonno. Da qui nasce la consapevolezza che la ferita non è solo maledizione ma che da essa può avere origine la bellezza. La ferita allora spaventa e attira allo stesso tempo. La ferita è ciò che sconvolge il quadro della vita ordinaria di una persona e che può imprimere ad essa una svolta, pur nel dolore. Può essere percepita come potenza oscura e luminosa, affascinante e spaventosa. A volte per cambiare siamo consapevoli che dobbiamo subire o imprimere una ferita a noi stessi, ma questa consapevolezza non ci fa desistere dal voler quel cambiamento e dal porlo in atto. Noi uomini a volte ci sentiamo deboli e ci definiamo una nullità ma lo stesso tempo abbiamo desiderio di andare oltre questa sensazione consapevoli del rischio che si corre. Allora la ferita può diventare occasione di crescita umana e personale. Consapevoli delle nostre ferite abbiamo la possibilità di essere empatici: La mia ferita diventa porta di accesso alla vita (ferita) degli altri.
Tuttavia, la ferita può diventare occasione di crescita umana personale. Infatti, solo quando prendiamo consapevolezza delle nostre ferite, possiamo realmente entrare nel dolore altrui. La mia ferita diventa allora la porta d‘accesso attraverso cui la mia vita può essere accolta nel profondo dell‘esistenza dell‘altro. Solo da questa accoglienza può nascere la reciprocità di un prendersi cura.
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"La prima menzione dello stendardo risale al 1627, quando viene anche attribuito per la prima volta a Raffaello. È un dipinto a olio su tela di 166x94 cm. per lato e per alcuni risale al 1499, anno di una terribile epidemia di peste che colpì la città. Si tratta di una della primissime opere attribuite all’artista. La critica non è stata sempre concorde nel vedere dietro allo stendardo la mano dell’artista urbinate, ma esistono almeno due disegni preparatori autografi di Raffaello riferibili al gonfalone, di cui uno per la figura dell’Eterno nella Creazione di Eva conservato ad Oxford. Diversamente dalla tradizione, che vede nella maggior parte dei casi le due immagini di uno stendardo dipinte su entrambe le facce della stessa tela, in questo caso l’opera è eseguita su due tele che dovevano essere in origine incollate o cucite. È l’unica opera mobile di Raffaello rimasta in Umbria. Sorprende la freschezza dell’opera anche se sono ancora molto evidenti i debiti verso il Perugino, e Luca Signorelli, nel dolce paesaggio, negli angeli simmetrici tra nastri svolazzanti. Nuova è invece la sicurezza nella disposizione delle figure nello spazio, molto più coerente che nei suoi maestri. Nel tempo il gonfalone ha subito numerosi interventi di restauro. Nel 1952 l’Istituto Centrale per il Restauro di Roma (ICR) ha eliminato le integrazioni successive alla mano di Raffaello evidenziando le lacune pittoriche con il caratteristico colore rosso bruno, simile a quello della tela scoperta, che oggi possiamo vedere. Si può così valutare meglio il grande livello tecnico e pittorico del gonfalone, ben percepibile nella riacquistata profondità del paesaggio, nella sicurezza della costruzione plastica della forma, nella sottigliezza micrografica dei particolari.
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"Sulla tomba di Raffaello, nel Pantheon di Roma, c'è questo epitaffio: \"Qui giace Raffaello, dal quale la natura temette mentre era vivo di essere vinta; ma ora che è morto teme di morire\". Sono di Pietro Bembo, ed è un omaggio alla creatività divina del grande Urbinate.
Il Venerdì Santo, 6 aprile del 1483, alle tre di notte ad Urbino vide la luce Raffaello Sanzio. Raffaello iniziava la sua breve avventura terrestre, così intensa e bruciante da essere considerata leggenda; e il giuoco delle coincidenze sembra preordinare e favorire circostanze fedeli più che all'uomo al mito. Il Venerdì Santo 6 aprile del 1520, alle ore tre di notte, Raffaello moriva. Il Vasari arriverà a far combaciare persino l'ora dei due avvenimenti, le tre di notte. Raffaello lavorava alla \"Trasfigurazione\" quando si ammalò, e la tavola incompiuta fu collocata a capo del letto funebre, \"la quale opera è sempre il Vasari a scrivere - nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l'anima di dolore\". Raffaello è stato talmente l'interprete d'un ideale bellezza classica, canonica, passata poi nel gusto di interi secoli di civiltà e connaturatasi quindi con il nostro ideale di bellezza, che non si distingue più, con lui, tra il bello di natura e il bello artistico. La sua grandezza di artista ha eliminato quel diaframma, e ha alimentato il mistero, che il Bembo ha poi in quell'epitaffio, toccato non a caso, il punto essenziale di qualunque discorso su Raffaello, cioè la concezione dell'arte come imitazione della natura. E quando si parla di \"natura\" in relazione all'arte, bisogna intendere qualcosa di diverso e ben più complesso delle capacità di imitare l'apparenza delle cose. Implica una allusione all'equilibrio, al senso dell'armonia, alla solennità calma e serena. Tutte quelle caratteristiche che sono poi state teorizzate come tratti distintivi delle opere di Raffaello. Tratti distintivi unici. Un'arte tutta sua. Ogni personaggio della \"Scuola d'Atene\" è un preciso ritratto di un singolo individuo e, al tempo stesso, l'immagine di un tipo umano perfettamente individuato e caratterizzato non solo nei tratti fisionomici, ma nell'espressione del viso, nell'atteggiamento della figura e perfino nel tono della carnagione. Raffaello già orfano di madre a 8 anni, a 11 perdeva anche il padre, ritrattista di successo, pittore di corte, suo primo e forse unico vero maestro. Tuttavia pur in una condizione meno privilegiata, Raffaello in pochi anni completò il suo apprendistato nella bottega del Perugino, e già a 15 anni pur artista completo, e già affermato a 17 anni come maestro in Umbria, a 20 anni nonostante la giovane età, si trasferì a Firenze dove così poté conoscere le opere dei grandi artisti più recenti, come Leonardo e Michelangelo. E a Firenze Raffaello si accorse \"di aver insino allora gettato via il tempo e diventò quasi di maestro nuovo discepolo e si sforzò con incredibile studio (di fare) essendo già uomo, in pochi mesi quello che avrebbe avuto bisogno (di fare) in quella tenera età che meglio apprende ogni cosa, e nello spazio di molti anni\". E se a Urbino nella scuola del Perugino, dipingeva come lui, e meglio di lui, a Firenze l'intento era ora quello di farsi emulo di Michelangelo e di Leonardo, e in seguito a Roma ancora di Michelangelo, e con gli artisti dei capolavori dell'antichità che mano a mano proprio lui andava scoprendo in quella città sepolta da secoli. Quando giunse a Firenze nel 1504, aveva subito iniziato ad avere forti legami con l'ambiente artistico, intellettuale, politico, e pur conservandoli questi legami, nel 1508 lascia la città fiorentina per Roma, dove - salvo brevi ritorni nei luoghi natali e a Firenze rimase fino alla morte. Giunse a Roma forse in seguito a una convocazione di papa Giulio II, che potrebbe essere stata suggerita dal Bramante. E sappiamo che già nel marzo del 1509, Raffaello è già citato come \"pittore\" del Palazzo Vaticano. Papa Giulio II voleva ristrutturare i Palazzi Vaticani, indi voleva decorare una serie di stanze nell'ala nord degli stessi. Raffaello non era il solo artista convocato e presente a Roma, ma quasi subito è lui che ottiene la piena responsabilità di una di esse, la Stanza della Segnatura. Il successo dell'opera (compiuta nello stesso momento in cui Michelangelo realizzava la volta della Cappella Sistina) gli guadagnò il monopolio di tutti i successivi incarichi pittorici in Vaticano. Anzi alla morte del Bramante, nel 1514, questi incarichi si estesero a comprendere le imprese architettoniche, inclusa la nuova basilica di San Pietro, e con la partenza di Michelangelo nel 1516, in questi incarichi Raffaello non ebbe più alcuna concorrenza. La sua attività quindi spaziò non soltanto nella pittura e nell'architettura, ma essendo molto profondo il suo interesse per l'antichità, ma anche \"preso dalla pietà per le distruzioni di monumenti causate dal tempo e dagli uomini\" scrisse a Leone X un accorato rapporto sullo stato di abbandono, e ricevuto l'incarico di occuparsene, da perfetto archeologo fece una completa ricostruzione filologica dei monumenti di Roma antica. Tutti questi impegni - coronati da successi- ebbero un'immediata influenza sui contemporanei; l'impatto provocato da Raffaello sull'arte del Rinascimento fu notevole tanto esso fu vasto, e in un modo o nell'altro ne risentirono tutti gli artisti italiani di un certo livello, anche se dopo il '700 si prese in considerazione solo il pittore dimenticando l'architetto e l'archeologo. Quando Raffaello morì il 6 aprile 1520, dopo quindici giorni di malattia, a 37 anni, oltre che addolorare il Pontefice, su Roma, nell'universale rimpianto cadde un ombra di mestizia. Tutti fino allora avevano guardato il \"Principe dei pittori\" come a un essere divino. Raffaello lasciò numerosi discepoli, tutti tentarono invano di riflettere la serenità dell'arte del Maestro. Ma gli effetti - spesso rumorosi- non mostrarono di avere ereditato il senso musicale del Maestro, pronto a comporre lo spazio con i più dolci ritmi. Anche perché i tempi in quel periodo si facevano torbidi, e stavano iniziando in Italia secoli di servitù nei confronti degli stranieri; l'Italia stava cominciando a soffrire le dure tormente, che gli umiliarono la terra e gli avi. Stava iniziando quel secolo che verrà sconvolto dai grandi avvenimenti religiosi e politici. L'arte, l'opera, il messaggio di Raffaello, in quelle bufere, rimasero e sono rimasti indenni. Avevamo avuto Dante, ma non sempre la sua parola poteva oltrepassare i confini italici, né tantomeno poteva essere compreso il suo linguaggio dagli invasori della penisola. Non così quello figurato che aveva lasciato invece Raffaello, chiaro, limpido, semplice, dove non occorre nessuna comprensione linguistica, ma essendo semplicemente \"grandioso\" bastano anche dei distratti occhi per rendere ricco e felice anche l'ultimo degli ignoranti o per far sentire piccolo e povero - oltre che umiliato - il più ricco e istruito uomo della terra. Raffaello oltre che essere immortale rimarrà universale fino all'ultimo giorno dell'ultimo essere umano su questo pianeta.
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// --- OPERA 03
// --- --------
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txtAutore[index] = "Marc Chagall";
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"Attraverso una lacerazione, uno squarcio, Dio si comunica direttamente al suo popolo. Lo squarcio del velo del tempio di Gerusalemme in coincidenza con l’ultimo respiro di Gesù sulla croce il venerdì Santo, è sicuramente una delle immagini bibliche più potenti. Nel tempio di Israele nel quale si rende culto a Dio, in un locale cubico chiamato Santo dei santi o Santissimo, era custodita l’arca sacra, l’arca del patto o della testimonianza avente un coperchio d’oro massiccio. Nessuno poteva entrare in quello spazio se non il sommo sacerdote nel giorno di yom kippur, per mettere in scena il desiderio del popolo di incontrare Dio. In quel giorno così solenne il sommo sacerdote portava in offerta il sangue del sacrificio per sé stesso e per i peccati di tutto il popolo. Ecco perché il giorno di yom kippur era il giorno più solenne dell’anno, il giorno in cui Dio concedeva il perdono. L’arca dell’alleanza in quello spazio era protetta da un velo che ne celava la visione e che segnava un confine tra il popolo e lo spazio del Santo dei Santi.
Quel venerdì di duemila anni fa, avviene però un evento sconvolgente che ribalta la prospettiva religiosa ebraica (e nostra). Nel momento in cui Gesù, il figlio di Dio, muore sulla croce quel velo si squarcia in due. Nel tempio accade una ferita. Ma quella ferita anziché essere impedimento alla relazione con Dio diventa segno tangibile che l’uomo può davvero incontrare Dio, che davvero perdona il peccato dell’uomo. Quello squarcio del velo non è una dissacrazione ma semmai una nuova consacrazione, nuova alleanza tra Dio e il suo popolo. L’uomo può accedere direttamente a Dio, ad una più profonda comunione con lui. Quel velo squarciato è ferita impressa a Dio, così come quelle piaghe che sfigurano Gesù, sono il corpo del figlio di Dio ferito. La ferita del figlio non può non ferire suo padre o sua madre. Ma quella ferita non è sorgente di una condanna, non è interruzione di un rapporto, ma è alleanza che si crea, è compassione di Dio verso l’uomo ed è possibilità data all’uomo di raccontare le proprie ferite ad un Dio ferito che è capace di comprendere le ferite, di ascoltarle, di farle proprie, di farle diventare sorgente di un’alleanza rinnovata. Una rinnovata alleanza e una rinnovata possibilità di vita: e’ questa la speranza che il velo /il corpo ferito mostrano?
Quella ferita del velo /del corpo è possibilità nuova data all’uomo di dare senso alla sua vita.
Il punto di partenza della nostra riflessione sulla ferita è lo squarcio del velo del tempio di Gerusalemme, tra le immagini simboliche piu potenti che la tradizione biblica abbia mai elaborato. Attraverso una lacerazione, uno squarcio, Dio si comunica direttamente al suo popolo. Potremmo dire che senza quella ferita che si è aperta al cuore dello spazio sacro, sul corpo di Cristo, non sarebbe stata possibile alcuna comunicazione diretta tra Dio e il suo popolo.
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"Sembra nata dalle pennellate di un artista contemporaneo ispirato dalle immagini devastanti della guerra che vediamo ogni giorno in televisione e da quelle dei barconi carichi di immigrati che solcano il Mediterraneo. Eppure, la “White Crucifixion” (Crocifissione Bianca) di Marc Chagall ha 86 anni e a guardarla si può constatare amaramente quanto poco la storia abbia insegnato. Il dipinto, un olio su tela alto 155 centimetri e largo 140, conservato al The Art Institute of Chicago.
Il quadro di Chagall, pittore russo di origine ebraica, Come il “Guernica” di Picasso, la “Crocifissione Bianca” è un’opera che provoca «un impatto emotivamente molto forte da far accapponare la pelle». È il dipinto preferito da Papa Francesco, come da lui stesso ammesso in varie occasioni, ed è una potente denuncia contro l’intolleranza e la violenza. Al centro è raffigurato Gesù morto in croce con un drappo sul capo, indossato da ogni ebreo, specialmente durante la preghiera, con alla vita il tallit, tradizionale scialle di preghiera ebraico. Sulla croce la scritta Inri in ebraico. Chagall raffigura Gesù come l’uomo che riassume un intero popolo e tutti i perseguitati, i crocifissi del mondo. Sotto la croce una menorah, l’antico candelabro ebreo con sette braccia. Chagall ha dipinto sei candele, una delle quali è spenta «come se in qualche modo la violenza del mondo soffocasse tutto», ha spiegato don Alessio Geretti, esperto d’arte. Attorno alla menorah vi è lo stesso fascio di luce dipinto attorno al capo di Gesù, «come a indicare che è lui la settima luce». A sinistra del crocifisso un pogrom ha colpito un villaggio, quasi certamente Vitebsk dove il 7 luglio 1887 nacque Chagall nelle stesse ore in cui il villaggio veniva devastato. Poco sotto un barcone carico di immigrati che tentano la fuga.
Il colore predominante, come si comprende dal titolo dell’opera, è il bianco, a eccezione delle fiamme che distruggono case e una sinagoga, e dell’abito degli esuli erranti: verde, azzurro, blu scuro. Tra questi uno fugge con una sola scarpa stringendo tra le braccia la Torah. Sopra la croce un rabbino, una donna e due uomini, le “lamentazioni”, piangono l’uccisione dell’innocente. «L’opera è una meravigliosa prova di speranza», le parole di don Alessio.
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"Marc Chagall nacque il 7 luglio del 1887 a Lëzna in Russia, tuttavia trascorse la maggior parte in Francia, acquisendone la cittadinanza. La lontananza forzata dalla sua terra d’origine venne vissuta dall’artista in maniera tormentata, in quanto egli è sempre stato profondamente legato alla sua patria, pur essendo consapevole di non potervi vivere stabilmente a causa delle incompatibilità dovute al suo credo religioso, del rifiuto di aderire al regime e della sua arte non approvata dal regime. La sua famiglia, infatti, era di religione ebraica e viveva nei pressi della cittadina di Vitebsk, che oggi si trova in Bielorussia. Il giorno stesso della nascita dell’artista, la città subì un attacco da parte dei cosacchi, da cui fortunatamente la sua famiglia riuscì a trarsi in salvo. L’episodio venne raccontato più volte da Chagall, che ne rimase colpito al punto che spesso dichiarava di essere “nato morto”. Egli era il maggiore di nove figli, nati dall’unione tra il padre Khatskl (Zakhar) Šagal, un mercante di aringhe, e la madre, di nome Feige-Ite. Riuscì a convincere la famiglia a lasciarlo intraprendere la carriera artistica, nonostante questa professione fosse proibita dalla Torah, il testo sacro ebraico, ed iniziò a lavorare molto giovane come ritoccatore nella bottega di due fotografi. Poco dopo, riuscì ad accedere alla bottega dell’unico pittore presente nella sua città, Yehuda (Yudl) Pen. Spesso si trovò in disaccordo con il suo maestro, pertanto dopo pochi mesi lasciò la bottega e si trasferì a San Pietroburgo, dove si iscrisse all’Accademia russa di Belle arti. Qui, entrò in contatto con numerosi artisti e stili, allargando la propria visione artistica.
Tra il 1908 e il 1910 studiò in una scuola privata insieme al pittore Léon Bakst, che lo introdusse all’arte occidentale, in particolare alle opere di Paul Cézanne e Paul Gauguin e gli diede il suggerimento di trasferirsi a Parigi. Del resto, la vita a San Pietroburgo per Chagall era piuttosto complicata, in quanto la popolazione ebrea poteva risiedere in città solo con un permesso particolare, e doveva limitarsi a vivere nel loro ghetto con orari precisi di rientro. Chagall venne persino arrestato per esser contravvenuto al coprifuoco. Nel 1910 decise così di andare a Parigi, dove presto entrò in contatto con gli artisti che gravitavano nello storico quartiere di Montparnasse, in particolare con Guillaume Apollinaire, Robert Delaunay, Fernand Léger e Eugeniusz Zak.
Fece nuovamente ritorno in Russia nel 1914, effettuando una tappa a Berlino, dove organizzò la sua prima mostra personale grazie al supporto del mercante d’arte Herwarth Walden, ottenendo un buon riscontro. Una volta tornato in Russia, dovette restarvi fino al 1923 a causa dello scoppio della prima guerra mondiale, che gli impedì qualsiasi movimento. Nel frattempo, si sposò con una giovane di nome Bella Rosenfeld, protagonista di numerosi suoi dipinti, ed ebbe una figlia.
Fu attivamente coinvolto nella Rivoluzione Russa del 1917 come impiegato nel Ministero della Guerra, e grazie a questo incarico riuscì ad evitare l’arruolamento al fronte. Questa esperienza gli permise di frequentare importanti poeti russi, come Vladimir Vladimirovic Majakovskij, di collaborare come illustratore per diversi libri e giornali e di partecipare a diverse mostre collettive. Inoltre, venne nominato Commissario dell’arte per la regione di Vitebsk dall’allora ministro sovietico della cultura. In virtù di questo incarico, fondò un’accademia d’arte e un museo d’arte moderna. Tuttavia il governo sovietico ebbe presto da ridire sulle direttive artistiche di Chagall, che si oppose strenuamente all’ordine di far diventare la sua accademia affine al suprematismo russo, stile imposto dal governo, discutendo spesso a riguardo con il collega Kazimir Severinovic Malevic. Il celebre artista insegnava nell’accademia di Chagall ed era proprio esponente del suprematismo. Quando nel 1920, al ritorno da un soggiorno presso la sua città natale, egli trovò la sua accademia trasformata in un istituto suprematista, Chagall si dimise dall’incarico e si trasferì con la famiglia a Mosca. Qui ottenne un incarico di insegnante di arte agli orfani di guerra.
Il nuovo incarico non era allo stesso livello del precedente, e poco dopo Chagall riuscì tramite un contatto a lasciare la Russia nuovamente in direzione di Parigi, nel 1923. Nel 1937 ottenne la cittadinanza francese, tuttavia nel giro di pochi anni dovette di nuovo allontanarsi da Parigi a causa della seconda guerra mondiale e la conseguente persecuzione e deportazione del popolo ebreo. Chagall si nascose con la sua famiglia a Marsiglia, per poi fuggire in Spagna e Portogallo, fino alla partenza per gli Stati Uniti nel giugno del 1941. Qui, conobbe diversi artisti europei in fuga dall’Europa e grazie al gallerista Pierre Matisse, figlio del pittore Henri Matisse, partecipò a diverse mostre collettive. Tuttavia, Chagall si rifiutò di imparare l’inglese e continuò a parlare esclusivamente in francese e in yiddish, la lingua del popolo ebreo. Nel 1944 rimase vedovo, e il distacco forzato dall’amata moglie lo turbò profondamente, portandolo a smettere di dipingere per diversi mesi. Riuscì a riprendersi grazie all’aiuto della figlia Ida, la quale per altro gli fece conoscere una donna che divenne in seguito sua compagna per sette anni e dalla quale ebbe un altro figlio maschio.
Al termine della guerra, nel 1948, Chagall fece ritorno a Parigi una terza volta, poi si spostò in Provenza, dove rimase in via definitiva. Nello stesso anno ricevette alcuni importanti riconoscimenti, come una grande mostra allestita al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris e il conferimento del Gran Premio per l’incisione alla Biennale di Venezia. Nel 1973 Chagall venne invitato dal governo sovietico a recarsi in Russia, e fu accolto trionfalmente a Mosca e a Leningrado, mentre non volle in nessun modo tornare nella sua città natale Vitebsk. Chagall morì a 97 anni in Provenza, a Saint-Paul-de-Vence, il 28 marzo del 1985. Le sue spoglie vennero tumulate nel cimitero locale.
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// --- OPERA 04
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txtTitolo[index] = "Cristo Pantocratore";
txtAutore[index] = "Maestranze Siciliane e Bizantine";
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"L’arte ad un certo punto del suo cammino, seconda metà del dodicesimo secolo, raffigura un cambiamento profondo nella sensibilità religiosa dei cristiani: si passa dal Cristo Pantocratore, ieratico, perfetto, bello nella sua trascendenza sovrana e assoluta ad un Cristo misericordioso, che non teme di mostrare la fragilità della propria corporeità crocifissa. Da un Cristo perfetto ad un Cristo che non ha paura di mostrare le proprie ferite, che non teme di mostrare che è stato colpito. Cristo si fa sempre più umano, svela un Dio che condivide l’avventura terrena degli uomini. Le ferite sul corpo di Gesù sono il segno che l’ingiustizia umana lasciano. Ma quei segni sono ora indelebilmente presenti sul corpo del Figlio di Dio. E Gesù in quelle ferite seminerà la misericordia che salverà dagli uomini dal veleno intossicante del male. Cristo è un giudice che si fa segnare dal male perché desidera risolvere il male con la misericordia. Il corpo di Cristo ferito è un libro che racconta i drammi e le tragedie della storia. Ma su quel corpo crocifisso, quei drammi e quelle tragedie possono trasfigurarsi in luce. Quelle tragedie quei drammi allora non saranno distruttivi ma, se affidati alla misericordia di Dio che si svela in Cristo crocifisso, potranno diventare inizio di un cambiamento.
Dalle immagini gloriose del Pantocratore benedicente, dove il figlio di Dio si rivela nella straordinaria bellezza della sua trascendenza sovrana e assoluta, si passa alle rappresentazioni di Cristo misericordioso, che mostra le proprie ferite, i segni della passione. Cristo non è più avvolto nello splendore luminoso dell’oro si rivela ora nell’umanità di quell’uomo che è nato, è vissuto, ha sofferto ed è morto sulla croce, per poi risorgere il terzo giorno. Cristo si fa sempre più umano, è il Dio che condivide l’avventura terrena degli uomini.
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"Il Cristo Pantocratore di Monreale ha uno sguardo severo ma umano ed è immerso nella luce divina creata dalle tessere dorate del mosaico.
Intorno al Cristo Pantocratore di Monreale sono posti angeli e santi. Gesù alza la mano destra in segno di benedizione. Il suo sguardo è severo ma benevolo ed è orientato verso destra. I capelli scuri sono lunghi e ricadono dietro la schiena. Gesù porta una folta barba scura che rende il suo aspetto molto autorevole. A sinistra sorregge un libro aperto sul quale si legge: “Io sono la luce del mondo” chi mi segue non cammina nelle tenebre”.
Gesù è raffigurato a mezzo busto. Dietro il Suo capo è disposta una aureola che incorpora una croce per distinguerla da quella dei santi. Con la mano destra, Cristo compie il gesto della benedizione. Tre dita della mano sono avvicinate a simboleggiare la trinità e l’unità di Dio. L’indice e il medio, invece rappresentano la dualità della natura di Cristo, umana e divina. Sono presenti anche alcune iscrizioni, in greco e in latino, che simboleggiano la vicinanza delle due civiltà.
Il termine Pantocrator deriva del greco pan (tutto) e kràtein (dominare con forza) e si può tradurre come l’Onnipotente. Il termine era già utilizzato nell’antichità classica come appellativo di alcune divinità. Nella religione Cristiana si ritrova, invece, come attributo di Cristo. La sua immagine imponente è tipica, soprattutto, di mosaici e catini absidali e fa riferimento a Dio e all’umanità. Infatti l’abito rosso e oro simboleggia la divinità mentre il manto blu rimanda all’uomo. L’oro che circonda l’immagine rappresenta la luce divina. Il Cristo Pantocratore è un modello iconografico tipico della tradizione bizantina e ortodossa.
La figura del Cristo Pantocratore di Monreale è realizzata con la tecnica del mosaico. Le tessere dorate sono disposte in modo concentrico intorno a Cristo. Questa disposizione permette di creare un alone dorato intorno alla figura divina. Inoltre, l’incarnato è reso con tessere color rosa e ocra che disegnano l’anatomia del volto e del collo. I capelli sono lunghi e fluenti, resi con file alternate di tessere ocra e brune. Verso i bordi della capigliatura si nota l’utilizzo di un leggero chiaroscuro che rende le ciocche più volumetriche.
Le tessere del mosaico di fondo creano un alone dorato intorno alla figura del Cristo Pantocratore di Monreale. Inoltre la loro disposizione determina delle campiture cromatiche bidimensionali che disegnano le superfici degli abiti e del volto di Gesù. L’abito è realizzato con tessere dorate e rosse mentre il mantello con tessere di diversi toni di blu.
Il mosaico che raffigura il Cristo Pantocratore di Monreale si adatta alla parete concava del catino absidale. La composizione è centrale e la figura di Cristo occupa quasi interamente la superficie mosaicata. Non si possono individuare dei piani di raffigurazione ma solamente un unico piano sul quale è posta l’immagine di Cristo. Il mosaico è composto con una rigorosa simmetria centrale.
L’uso dell’oro è uno degli aspetti più distintivi e simbolici del mosaico. Le tessere dorate creano un fondo che non rappresenta un paesaggio fisico, ma uno spazio ideale e divino, simbolico del Cielo. L’oro ha una duplice funzione: riflette la luce naturale che entra nel Duomo, creando un effetto quasi etereo, e conferisce alla figura di Cristo. Le tessere dorate sono disposte in modo concentrico intorno alla figura di Cristo, amplificando l’effetto di un alone di luce che sembra emettere direttamente dalla sua figura.
La tecnica di assemblaggio delle tessere è molto complessa: venivano inserite con precisione per adattarsi alla curvatura dell’abside, seguendo un rigido schema simmetrico che esalta la centralità di Cristo. Il mosaico è composto da tessere di vari materiali, tra cui vetro colorato e pietre preziose, che sono stati probabilmente tagliati e posizionati sul posto, un processo che richiedeva abilità eccezionali da parte dei mosaicisti bizantini e locali coinvolti nella realizzazione. Alcuni studi suggeriscono che le tessere di vetro venivano cotte direttamente a Monreale, e resti di questo materiale sono stati ritrovati nei muri del Duomo, suggerendo una produzione locale strettamente integrata.
Il mosaico del Cristo Pantocratore domina l’abside centrale, circondato da una vasta corte celeste composta da angeli, santi e figure bibliche. Al di sotto di Cristo, la Vergine Maria con il Bambino è affiancata da due arcangeli, creando una gerarchia visiva che rappresenta la gloria divina. Questo schema iconografico richiama simbolicamente il Cielo, rafforzando il ruolo di Cristo come punto focale della fede.
Il Cristo Pantocratore è un simbolo potente che incarna l’autorità e la divinità di Cristo. Questa rappresentazione di Gesù, onnipotente e regale, ha radici profonde nella tradizione bizantina e rappresenta Cristo come il “Signore di tutte le cose”, il giudice finale e la luce del mondo. Il mosaico è più di un semplice ornamento: è un mezzo di comunicazione visiva che trasmette un messaggio teologico di potere e redenzione, immerso in un contesto liturgico che invita i fedeli a riflettere sulla propria fede e sul rapporto con il divino.
Nel corso dei secoli, il mosaico del Cristo Pantocratore è stato oggetto di diversi interventi di restauro volti a preservare questa straordinaria opera d’arte. Il processo di restauro si concentra principalmente sulla manutenzione delle tessere dorate e vitree, che rischiano di staccarsi a causa del tempo e delle condizioni ambientali. Il restauro richiede un approccio altamente specializzato per garantire che i materiali originali siano mantenuti intatti il più possibile.
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// --- OPERA 05
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"L’arte ad un certo punto del suo cammino, seconda metà del dodicesimo secolo, raffigura un cambiamento profondo nella sensibilità religiosa dei cristiani: si passa dal Cristo Pantocratore, ieratico, perfetto, bello nella sua trascendenza sovrana e assoluta ad un Cristo misericordioso, che non teme di mostrare la fragilità della propria corporeità crocifissa. Da un Cristo perfetto ad un Cristo che non ha paura di mostrare le proprie ferite, che non teme di mostrare che è stato colpito. Cristo si fa sempre più umano, svela un Dio che condivide l’avventura terrena degli uomini. Le ferite sul corpo di Gesù sono il segno che l’ingiustizia umana lasciano. Ma quei segni sono ora indelebilmente presenti sul corpo del Figlio di Dio. E Gesù in quelle ferite seminerà la misericordia che salverà dagli uomini dal veleno intossicante del male. Cristo è un giudice che si fa segnare dal male perché desidera risolvere il male con la misericordia. Il corpo di Cristo ferito è un libro che racconta i drammi e le tragedie della storia. Ma su quel corpo crocifisso, quei drammi e quelle tragedie possono trasfigurarsi in luce. Quelle tragedie quei drammi allora non saranno distruttivi ma, se affidati alla misericordia di Dio che si svela in Cristo crocifisso, potranno diventare inizio di un cambiamento.
Dalle immagini gloriose del Pantocratore benedicente, dove il figlio di Dio si rivela nella straordinaria bellezza della sua trascendenza sovrana e assoluta, si passa alle rappresentazioni di Cristo misericordioso, che mostra le proprie ferite, i segni della passione. Cristo non è più avvolto nello splendore luminoso dell’oro si rivela ora nell’umanità di quell’uomo che è nato, è vissuto, ha sofferto ed è morto sulla croce, per poi risorgere il terzo giorno. Cristo si fa sempre più umano, è il Dio che condivide l’avventura terrena degli uomini.
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"Il corpo di Cristo emerge da uno sfondo quasi nero. La composizione, ritagliata alle ginocchia della figura, crea un senso di vicinanza tra spettatore e soggetto, un senso che viene ulteriormente esaltato dallo sguardo di Cristo che è fissato sullo spettatore. Gesù è parzialmente coperto dal sudario bianco, e i fori rotondi lasciati sulle sue mani dai chiodi della Crocifissione rendono chiaro che siamo di fronte al Cristo risorto. Picina la carne con entrambe le mani per esporre la ferita della lancia al suo fianco, apparentemente invitando lo spettatore a palparla, e la sua bocca è aperta come se stesse per parlare.
Il dipinto è probabilmente basato sull’iconografia tardo-medievale di Cristo che mostra le sue ferite, note come ostentatio vulnerum, a cui il pittore aggiunge un complesso peso retorico tipico dell’arte di questo periodo. La bocca aperta di Cristo e l’atteggiamento imitano l’apostrofo, il dispositivo retorico emotivamente impegnato utilizzato dai predicatori quando si rivolge all’ascoltatore. Spetta allo spettatore immaginare le parole di Cristo: egli può invitare lo spettatore a mettere il dito nella ferita. O forse sta dicendo: “Perché mi hai visto, hai creduto”.
Il fatto che Tommaso inizialmente non avesse visto il Cristo risorto lo individua tra gli Apostoli e lo rende più simile a noi che agli altri. Nel ricreare la vista che Tommaso avrebbe visto, il dipinto colloca efficacemente lo spettatore al posto di Tommaso. Questo, a sua volta, ha lo scopo di capitalizzare il dubbio, un difetto percepito che lo spettatore può condividere con Tommaso, per avvicinarlo a Cristo: “perché hai dubitato, mi stai vedendo”. Eppure, la visione rimane una finzione imperfetta; l’immagine potrebbe anche essere benedicendo lo spettatore che, non avendo visto, ha creduto.
La facilità di Tommaso di relazionarsi fornisce la base per l’allusione intelligente di Lo Spadarino alla storia. Il suo Cristo risorto implica che lo spettatore, potenzialmente chiunque, possa essere al crocevia tra fede e incredulità, in una posizione essenzialmente simile a quella dell’Apostolo dubbioso. L'artista descrive Cristo come se fosse apparso a Tommaso, rivolgendosi agli spettatori che, come Thomas all'inizio della storia, hanno sentito la notizia ma non hanno ancora avuto esperienza di prima mano per sostenere la loro fede. Il dipinto fa da promemoria: sei un dubbioso, potresti anche essere un credente.
Il dipinto invita anche gli spettatori a scavare nella natura della loro fede. Il racconto di Giovanni delle parole di Cristo sembra implicare una gerarchia che privilegia la fede basata solo sull’ascolto della notizia della Risurrezione – “benedimi sono coloro che non hanno visto, e tuttavia hanno creduto” (v. 29 KJV). In altre parole, il testo loda la credenza al suo più lontano dall’esperienza incarnata. In estremità opposta troviamo coloro che hanno visto il Cristo risorto e, ancora ancora, l’atto di toccare Tommaso, una forma di esperienza più corporea di quella offerta dall’udito o dalla vista. All’inizio, Tommaso è in svantaggio sia per la fede che per l’esperienza e, come afferma, rifiuta di credere fino a quando non vedrà ciò che gli altri Apostoli avrebbero visto. Ma a causa della sua incredulità iniziale, a Tommaso viene concessa un’esperienza più diretta e quindi più affidabile rispetto al resto degli Apostoli, che hanno visto ma non toccato il Cristo risorto – e questo è ciò che Lo Spadarino ha scelto di rappresentare.
L’ambiguità viene alla ribalta se ricordiamo che nel passaggio precedente Cristo, apparendo a Maria Maddalena, le impedì di toccarlo (Giovanni 20:17). Se il trattamento speciale di Cristo di Tommaso, che il dipinto si estende allo spettatore, può essere considerato sia come un rimprovero che come una ricompensa, la storia potrebbe essere interpretata non solo come un’approvazione della credenza cieca, come sembra a prima vista, ma anche come un riconoscimento che almeno alcuni trarranno profitto dal non credere in modo indiscutibile.
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"Giovanni Antonio Galli (Roma 1585 – 1652), pittore erede della maniera caravaggesca, è conosciuto come il soprannome di Spadarino, poiché figlio di un fabbricante di spade senese. Probabilmente esegue l’apprendistato presso la bottega di Agostino Tassi che infatti lo menziona come suo collaboratore agli affreschi nella Sala Regia del Quirinale, oggi Salone dei Corazzieri, nel processo del 1619. Di mano dello Spadarino infatti sono i due ovali con il Ritrovamento di Mosè e Mosè e le madianite della parete destra della sala, la Figura della Virtù e quattro putti. Lo Spadarino è annoverato tra gli artisti che hanno accolto l’eredità caravaggesca, infatti è inserito tra i nomi della cosiddetta “Schola del Merisi”, ossia coloro che per conoscenza diretta o meno assimilano e tramandano la maniera del Caravaggio anche dopo la sua morte. Importante è anche il rapporto che intesse con Gerrit van Honthorst, conosciuto come Gherardo delle Notti. Sarà probabilmente quest’ultimo che lo introduce nell’ambiente mediceo che gli commissiona delle opere per la cappella Guicciardini di S. Felicita. Tra i suoi maestri viene annoverato inoltre Carlo Saraceni, la cui lezione è rintracciabile specialmente in Gesù tra i dottori, attualmente nel Palazzo Reale di Napoli e l’Apparizione di Gesù Bambino a S. Antonio da Padova nella chiesa dei Ss. Cosma e Damiano a Roma. Molti sono i dipinti, ad oggi non rintracciabili, realizzati dal pittore che figuravano in importanti collezioni private, come una Resurrezione e un S. Giovanni Battista nel deserto appartenenti a Vincenzo Giustiniani; una Morte di Adone nella collezione di Pierre Crozat; o un Bacco a mezzo busto, registrato nel 1635 nella raccolta del napoletano Gaspare Roomer. La commissione più importante che riceve però in questi anni è la pala d’altare con il Martirio dei SS. Valeria e Marziale per S. Pietro, il cui ultimo pagamento risale al 1633.
Nel 1638, grazie all’intermediazione di Tassi, riceve l’incarico di affrescare le attuali sale Manzoni e Garibaldi di palazzo Madama, terminate nel 1641. Sempre il maestro gli fa ottenere la commissione di sei tondi e un ovato per la galleria di Palazzo Pamphili, ma in questo caso i committenti non rimangono soddisfatti e distruggono l’operato del pittore. Questo evento non compromette comunque la fama dell’artista che continua a riceve incarichi. Dal 1647 al 1649 lavora con Tornioli ai mosaici della cappella del coro in S. Pietro, probabilmente proposti e sostenuti da Virgilio Spada, che infatti in collezione possiede Due cherubini dello Spadarino, ricevuti come ringraziamento. L’eredità caravaggesca accolta dallo Spadarino è tale che in molti contendono la paternità del Narciso di Caravaggio, oggi conservato a Palazzo Barberini, proprio al pittore romano, soprattutto per la dolcezza dei lineamenti del personaggio che farebbero pensare a un avvicinamento al classicismo dell’epoca, distante dal lessico di Michelangelo Merisi, e caratteristica invece che contraddistingue Giovanni Antonio Galli.
Altra opera dalla paternità combattuta è L’Angelo custode nella chiesa di S. Rufo a Rieti, anche se in questo caso si propende maggiormente per un’attribuzione allo Spadarino, che sottolinea la sua adesione totale al puro e chiaro realismo caravaggesco, consacrandosi quale erede diretto del Merisi.
L’artista si spegne nel 1652 e la lettura dell’inventario rivela dati interessanti. Infatti si annoverano nella produzione del pittore anche opere di natura morta o paesaggi, ad oggi non rintracciati.
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// --- OPERA 06
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"Bellissime le parole del gesuita Andrea dell’Asta ritrovabili sul testo che fa da ispirazione a questa mostra: Cristo mostra al fedele le sue cicatrici, le stigmate della sua carne. Il Dio in cui credo, morto in croce, ha sofferto per me, riconosco i segni della sua passione. Nella prova del dolore, posso rivolgermi a lui e chiedere aiuto, conforto, perché anche lui, come ogni uomo, ha sofferto, ha vissuto l'oppressione della solitudine, l'angoscia di trovarsi da solo di fronte alla morte. E quell'uomo mi comprende, mi consola, condividendo il mio dolore, perché mi ha profondamente amato. D'altra parte, colui che ama, desidera sempre entrare nella vita dell'altro per condividerla, per portare su di sé la sua sofferenza perché questi ne sia liberato, chiedendo di prendere il suo posto. Nello sconforto e nella desolazione, Cristo mi sostiene. Anzi, come sperimenta Francesco d'Assisi, Cristo mi ama a tal punto da lasciare i suoi segni nella mia carne, come sigilli. Sono le stigmate della sua passione. Non sono forse queste il sigillo dell'amore di Dio? Come è scritto nel Cantico dei Cantici: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l'amore, tenace come gli inferi è la passione». Le stigmate sono sigilli d'amore, segni dell'essere sempre con Dio. (pagg. 254-255).
Il profeta Ezechiele (9,4) diceva Che Dio pone un sigillo, una tau sulla fronte degli uomini da lui eletti. Nell’alfabeto ebraico antico questa lettera era scritta con il segno + o con una x, era il segno che le persone erano indicate, scelte, salvate. Questo segno di salvezza lo ritroviamo anche nel libro dell’apocalisse (7,2-4).
Francesco opera una trasformazione del modo di vivere il cristianesimo: vivere il cristianesimo è una conversio cordis e mutatio corporis. Il livello del cuore il livello del corpo nell’esperienza spirituale di Francesco si uniscono profondamente, non sono più dissociati. Cuore e corpo non sono più contrapposti ma uniti nel vivere l’esperienza di fede. Francesco vive un vero era radicale riferimento a Cristo. Lui è innamorato Dio, è il folle, il pazzo di Dio, imita interiormente ed esteriormente Gesù e permette a Gesù di vivere in lui, nel suo cuore e nel suo corpo.
Francesco incontra l’uomo della Croce nella chiesetta di San Damiano contemplando il crocifisso. Ha compassione delle ferite dell’uomo crocifisso: per esso nutre compassione per tutti coloro che soffrono. Insomma come direbbe Angelo Silesio: tu vieni trasformato in ciò che ami. Ecco: questa è l’esperienza di Francesco d’Assisi.
Le ferite diventano luogo di alleanza con Cristo e con gli uomini. Le ferite diventano luce offerta agli uomini. Le ferite di Cristo diventano luogo nel quale Francesco rigenera la sua umanità, luogo nel quale diventa un uomo nuovo, un nuovo Adamo. Questa umanità nuova e offerta a tutti gli uomini e le ferite del crocifisso impresse sul suo corpo sono offerta agli uomini come luogo nel quale rigenerarsi. Nella sensibilità spirituale cristiana bizantina l’uomo era chiamato a divinizzarsi per grazia. Infatti nel duomo di Monreale il volto di Adamo è uguale al volto del creatore (il pantocratore dell’abside) che a sua volta è uguale al volto di Gesù. Anche Francesco si divinizza, diventa immagine di Dio, ma non in una spiritualità distaccata dalla vita concreta bensì nella conformazione alla vita di Cristo crocefisso. Consapevole che la luce passa dalla via dolorosa.
Cosa ci raccontano le ferite del crocefisso impresse sul corpo di Francesco? Ci dicono che l’uomo non crea la propria identità a partire da se stesso e dai suoi progetti, ma accoglie la sua vita da un altro, da Cristo stesso. l’identità non è il frutto di un proprio progetto, ma è un dono. La sua vita presuppone un esodo da sé stessi verso un altro, ad Deum. Francesco d‘Assisi è il primo santo ad accogliere le stigmate, i segni di Cristo crocifisso, ricevendo la sua nuova identità di alter Christus. Per comprendere il significato di questo “dono“, accorre andare al cuore del rapporto tra Cristo e Francesco, centrale per la storia religiosa dell‘Occidente.
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"Ecco il volto di San Francesco come lo ha ritratto Cimabue, sulla scorta di testimonianze di persone e confratelli che avevano visto o vissuto con il “poverello di Assisi”.
Nella raffigurazione di Cimabue, siamo nel 1280 circa, Francesco si presenta pensoso e sofferente ma allo stesso tempo sereno, tant’è vero che le sue labbra sembrano suggerire un lieve sorriso. Guarda direttamente il fedele che entra nella basilica inferiore di Assisi, incontra il volto del Pellegrino, lo accoglie gli infonde fiducia. Il particolare delle grandi orecchie a sventola suggeriscono l’importanza dell’ascolto della parola di Dio per il poverello d’Assisi. Come un Cristo pantocratore sorregge il libro delle scritture ma allo stesso tempo come il Cristo compassionevole è profondamente umano. Francesco è testimone vivente della trasformazione spirituale che abbiamo visto venire nell’arte del dodicesimo secolo. Francesco, il primo Santo a ricevere il segno delle stigmate, mostra come Cristo le sue ferite si imprimono nel cuore e nel corpo del fedele.
Francesco, nell’opera, presenta un volto magro e le stigmate sulle mani e sui piedi, il primo tra i santi di tutti i tempi a mostrare i segni, sul proprio corpo, della sofferenza patita da Cristo in croce.
Il figlio del ricco commerciante di stoffe Pietro Bernardone e di Madonna Pica, forse una provenzale, venne ritratto nel grande affresco noto come la “Maestà di Assisi” o, anche, “La Madonna in trono con Bambino”, eseguito da Cimabue tra il 1285 e il 1290. “Abbiamo liberato la figura del santo dai rifacimenti e dalle aggiunte, non sempre rispettose dell’originale (venne aggiunta anche la barba sul volto del “poverello”, nda) succedutesi nel corso dei secoli…”.
Ma è davvero questo il “vero volto” del santo? Proprio ad Assisi si conserva il “ritratto” opera del misterioso (solo perché non si hanno notizie certe sull’autore) “Maestro di San Francesco” (gli esperti lo ritengono operativo tra il 1269 ed il 1280). Chi vorrà potrà farsi una idea più precisa confrontando l’opera di Cimabue e quella, di qualche lustro precedente, del “Maestro di San Francesco”. Qualche studioso sostiene che quest’ultimo artista, forse allievo di Giunta Pisano (1190-1260), fosse un religioso.
Chi ha studiato “Storia Francescana” (et quorum ego) rammenta la descrizione che di Francesco propose il francescano Tommaso da Celano (1200-1260), poeta e scrittore e che i docenti universitari Stanislao da Campagnola, come il suo predecessore Ilarino da Milano, amavano ricordare.
Eccola: “Era di statura mediocre, accostantesi al piccolo. Aveva testa regolare e rotonda, viso un po’ lungo e sporgente, piccola e piana la fronte, di giusta grandezza gli occhi neri e pieni di semplicità, capelli neri, sopracciglia diritte, naso regolare sottile e diritto, orecchie staccate ma piccole, tempie piane…” Ed ancora: “Uniti i denti uguali e bianchi, labbra piccole e sottili, barba nera e rada, collo fine, spalle diritte, braccia corte, mani scarne, dita lunghe, unghie snelle, piedi piccoli, pelle delicata”.
Avesse o no, gli orecchi a sventola, bello, insomma, Francesco non lo era. Tuttavia sapeva ammaliare, con i suoi modi eleganti e la parola fluente, i grandi della terra (papi, imperatori, il Saladino) e gli ultimi, gli intellettuali e gli analfabeti, i religiosi e i laici. Ed il suo fascino resta vivo ancora oggi. Non solo tra i credenti, col pontefice gesuita tra i primi, tanto da aver assunto il suo nome.
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"Le notizie certe che sappiamo, ossia suffragate da documenti, sulla vita di Cimabue sono molto esigue: presente a Roma nel 1272; incaricato di realizzare un cartone per il mosaico del catino absidale del Duomo di Pisa il 1º novembre 1301; morto a Pisa il 24 gennaio 1302. Da queste pochissime informazioni i critici e gli storici dell'arte hanno ricostruito, non senza controversie e incertezze, il catalogo delle opere.
La data di nascita approssimativa si basa sulla menzione di Vasari e su un calcolo dell'età che doveva avere nel 1272, quando a Roma venne citato come testimone in un atto pubblico di notevole importanza, quindi verosimilmente sui trent'anni. In tale documento viene anche ricordato il luogo di nascita dell'artista, \"Florentia\", confermata anche nel documento pisano. Non trova altri riscontri la notizia di Giovanni Villani che l'artista si chiamasse \"Giovanni\" e Cimabue di cognome[3].
Il documento di Roma, datato 8 giugno 1272, registra la testimonianza del pittore sul patronato che il cardinale Ottobono Fieschi assunse su incarico di papa Gregorio X di un monastero di monache di San Damiano che per l'occasione, fu ridedicato a Sant'Agostino e alla sua Regola. A Roma dovette conoscere l'arte classica e la scuola locale. La ricostruzione della cronologia delle opere basata su dati stilistici dalla recente e rigorosa analisi di Luciano Bellosi pone l'artista al lavoro a Firenze, Pisa e Bologna alla fine degli anni settanta e all'inizio del decennio successivo. In questo periodo avrebbe realizzato, tra le altre opere, il crocifisso di Santa Croce, la Maestà del Louvre e i mosaici del battistero di Firenze.
Gli anni ottanta dovettero essere il momento di massima popolarità dell'artista, con l'incarico di decorare transetto e abside della basilica superiore di San Francesco, impresa realizzata tra il 1288 e il 1292 circa. Già dagli anni novanta il suo astro dovette iniziare ad essere oscurato da quello dell'allievo Giotto, come registrò la celebre menzione dantesca. Ci fu comunque spazio per un'opera celebre come la Maestà di Santa Trinita.
Come già accennato, il 1º e il 5 novembre 1301 era a Pisa, dove firmò per l'esecuzione di una grande Maestà con storie sacre per la chiesa dell'ospedale di Santa Chiara, da eseguire in collaborazione col lucchese Giovanni di Apparecchiato, detto \"Nuchulus\": opera perduta o forse mai eseguita per la morte dell'artista. Il 19 marzo 1302 infatti, appena quattro mesi dopo, un documento fiorentino parla degli \"eredi\" di Cimabue riguardo a una casa nel popolo di San Maurizio a Fiesole. Il 4 luglio di quell'anno al camerlengo di Pisa vengono consegnati alcuni oggetti (i guanti di ferro, una tovaglia e altro) appartenuti al pittore, che quindi doveva essere morto mentre attendeva a un lavoro per il Duomo di Pisa, ovvero i cartoni per il mosaico nella calotta absidale.
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// --- OPERA 07
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"La ferita, è uno strappo folgorante, è il simbolo dell’atto creatore per eccellenza, della separazione del giorno dalla notte, della terra dalle acque, è un istante di luce che accade. Nella tela, non vediamo né corpi né personaggi, né volti. Il dolore si concentra in quello squarcio in quella ferita, da questa ferita nasce una nuova creazione. La cucitura è la nuova genesi, la rinascita, la ripresentazione dell’atto della creazione. Roa pensa di non soffermarsi principalmente sulla ferita, ma soprattutto come va curata, qui il senso delle cuciture, un taglio libera il sangue, per noi cristiani libera anche speranza, il sangue qui, diventa colori
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"Lo squarcio assume diverse modalità espressive, anche attraverso le forme dell’astrazione pittorica. Ad esempio, l’elemento fondante della pittura dell’artista Messicano Samuel Roa.
La ferita, è uno strappo folgorante, è il simbolo dell’atto creatore per eccellenza, della separazione del giorno dalla notte, della terra dalle acque, è un istante di luce che accade.
La linea è il grido improvviso di fronte al silenzio, alla condizione tragica dell’uomo che giunge al suo culmine drammatico, alla sua massima intensità espressiva, quando Newman, elaborando la serie delle 14 Stazioni della Croce (1966), dipinte con i colori del bianco e del nero, riflette sul dolore espresso dal grido di Gesù, di fronte al silenzio di Dio “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Nella, tela, non vediamo né corpi né personaggi, né volti. Il dolore si concentra in quello squarcio, in quella ferita, in quel grido senza risposta che tuttavia è luce. Da questo grido che separa, come il bastone di Mosè che divide le acque del Mar Rosso, o come lo squarcio del velo del Tempio, nasce una nuova creazione.
La cucitura è la nuova genesi, la rinascita, la ri-presentazione dell’atto della creazione.
Quando si parla di strappi, di lacerazioni, occorre anche parlare di come ricucirli. La ferita può costituire un’apertura, un varco, un passaggio che mette in comunicazione realtà diverse. Tuttavia, in che modo l’arte contemporanea pensa la guarigione dalle ferite che, giorno dopo giorno, lasciano i segni sul nostro corpo?
È questo un tema molto ampio che Samuel Roa ha pensato a una “guarigione” possibile, a una ricomposizione della “carne” della materia dopo la lacerazione e lo strappo, a una ricucitura della ferita, che le restituisce dignità. È un invito a rinnovare il nostro sguardo su quanto rifiutiamo, eliminiamo ed escludiamo.
Cucire non è niente altro che ricomporre tutte le dimensioni della vita.
Roa pensa di non soffermarsi principalmente sulla ferita, ma soprattutto come va curata, qui il senso delle cuciture, un taglio libera il sangue, per noi cristiani libera anche speranza, il sangue diventa di colori.
Come per Ignazio di Loyola che, nel 1521, accorso a difendere il castello di Pamplona assediato dalle truppe francesi, rimane ferito alle gambe da un colpo di cannone, con il rischio di rimanere paralizzato. Certo, il suo orgoglio è ferito, il suo mondo conosce una sconfitta da cui appare difficile riprendersi. La ferita è dolorosa, lo costringe a fermarsi, ma questa sarà il punto di partenza per una riflessione sulla sua vita, per un cammino di liberazione personale, per la sua conversione a Dio. La cicatrice che si forma rimane, ma da quella ferita Ignazio potrà liberarsi dalle illusioni e comprendere il senso più profondo della propria missione. Grazie a quella ferita, quel cavaliere diventerà l’” innamorato” di Dio. Da quella ferita scaturisce una nuova vita, per sempre.
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"Samuel Roa Mejia, in arte “Leumas Roa”, nasce a Irapuato, Messico il 18 dicembre 1970.
Passa la sua infanzia e giovinezza nel suo Paese completando la scuola dell’obbligo, frequentando una scuola superiore tecnica e successivamente due anni di Ingegneria informatica.
A 21 anni fa un giro di vita a 360 ° e si unisce ad un gruppo missionario cattolico che lo porta per tre anni come stagista in Africa, prima in Zambia poi in Tanzania. Tra il 1994 - 2000 prima in Messico e poi in Inghilterra ottiene le lauree (Bachelor of Arts) in Filosofia e Teologia rispettivamente all’Istituto Conciliare di Querétaro e alla Middlesex University di Londra.
Dal 2001 vive e lavora in ITALIA ed attualmente è residente a Ronco Briantino dove si trova il suo Studio. Dal 2022 è membro permanente degli artisti del Nuovo Rinascimento con sede al Centro Leonardo Da Vinci di Milano.
Fin dall’infanzia ha coltivato una passione per il disegno a matita e lo studio della prospettiva. Come autodidatta ha partecipato a diversi concorsi scolastici e locali per poi continuare con l’esperienza della pittura ad olio seguendo i consigli del maestro Luis Manuel Roa, artista messicano. Durante la permanenza in Africa ha potuto usare le sue abilità artistiche nella decorazione di chiese dipingendo muri, sia con “murales”, sia con elementi geometrici.
Negli ultimi anni ha ripreso la sua arte con più costanza ed iniziato un percorso di sperimentazione ed esplorazione, passando dal dipinto tradizionale a quello astratto e figurativo delle sue idee usando colori acrilici, metallo e sviluppando un’inclinazione per la scultura cercando costantemente di sottolineare l’aspetto tridimensionale delle opere, la “esplosione/irruzione” dei colori in movimento e la ricerca dell’equilibrio tra mente e cuore attraverso gesti d’umanità.
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// --- OPERA 08
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"La speranza è un rinnovato legame con il mondo, gli altri e Dio. E’ una vita che, in virtù della Pasqua di Gesù, si riannoda anche dopo il taglio atroce e doloroso che la morte appone alla nostra esistenza. Nella bolla di indizione dell’ano Giubilare “spes non confundit” il papa passa in rassegna legami che si devono riannodare, alleanze che si devono restaurare: con la terra, tra i popoli ricchi e quelli più poveri, tra le diverse chiese cristiane, con la vita eterna. Senza quest’ultimo legame la vita terrena corre il rischio di infiacchirsi e appiattarsi.
Unire, ricomporre, creare nuove armonie e inedite geografie, raccontando le relazioni con il mondo, cogli altri, con Dio: questo è il lavoro straordinario di Maria Lai attraverso i suoi lavori, l’artista sarda ci prende per mano, ci fa partecipare a un rito collettivo in cui non esiste più semplicemente uno spettatore, ma una comunità che, avvicinandosi all’opera, riscopre il significato più profondo delle proprie relazioni, del proprio essere in un universo infinito.
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"L’opera relazionale di Maria Lai (Ulassai 1919-Cardedu 2013), Legarsi alla montagna, ha luogo nel 1981 nel suo paese natale. Ulassai è un borgo di un migliaio di anime nel cuore dell’Ogliastra, in Sardegna, impressionante per l’imponenza selvaggia delle montagne e insieme attraente per la sua bellezza, la sua trama di grotte. In un luogo non distante ventisei anni prima, nel 1955, avevano ucciso il fratello minore di Maria e l’artista era stata lontana a lungo da Ulassai.
Quando però il sindaco di Ulassai, intorno al 1979-1980, le affida l’incarico di realizzare un monumento, e ottiene il permesso di non eseguire un’opera tradizionale, l’artista, superando l’angoscia dei suoi ricordi, inizia a concepire l’evento di cui parliamo. Prima di tutto interroga la gente del paese sulle leggende che ancora circolavano tra loro. La più conosciuta era La grotta degli antichi. Sentiamola nella versione raccontata da Maria:
Una bambina viene mandata sulla montagna a portare del pane ai pastori. Giunta sul luogo, sente il brontolio del tuono: sta per scoppiare un temporale. La bambina si rifugia, allora, in una grande grotta e proprio qui trova tutte le greggi e i pastori che si riparano, aspettando la fine della bufera. All’improvviso, fuori dal rifugio, si vede svolazzare un nastro celeste portato dal vento. I pastori lo notano, ma non gli danno importanza, lo giudicano una frivolezza. Ma la bambina, capace di stupore, non mette freno al suo istinto, corre dietro al nastro, incurante nella pioggia. In quel momento la grotta frana e inghiotte dentro di sé greggi e pastori.
Ispirandosi al nastro celeste di cui parla la leggenda, Maria pensa a un’azione che coinvolga tutto il paese e sia compiuta dagli abitanti stessi di Ulassai. L’idea è quella di legare tutte le case tra loro con un nastro, che poi verrà ancorato alla montagna sovrastante, come simbolo di un rapporto di complicità tra gli uomini e di una relazione con la natura e il trascendente, con le proprie radici e la propria terra, con una “montagna sacra” che rimanda a una dimensione più grande dell’uomo. Additando un ideale positivo si può sperare di stigmatizzare il male: ogni male, ma specialmente la violenza che ci minaccia costantemente.
Parlando con tutta la gente di Ulassai, l’artista arriva insieme a loro a una decisione: ci saranno segni diversi a seconda del rapporto che corre tra casa e casa. Se c’è un vincolo di parentela e di affetto si aggiungerà al nastro un pane della festa, una di quelle forme incise e decorate come ricami di cui in Sardegna c’è una tradizione millenaria; se esistono solo legami di amicizia si aggiungerà appena un nodo; se invece, come spesso capita, ci sono motivi di rancore e d’odio basterà solo il nastro, senza nessun altro segno.
Dopo i primi momenti di rifiuto e di sospetto i cittadini di Ulassai, a cominciare dalle donne, si lasciano convincere a partecipare a quello strano teatro. Quanto al nastro, viene messo a disposizione dall’unico commerciante del posto che vendeva tele di jeans e che ne dona all’artista diversi rotoli. Il primo atto di Legarsi alla montagna è appunto la preparazione del nastro: uomini, donne e ragazzi si radunano nella spianata del paese dove un tempo si teneva il mercato e svolgono i rotoli, ricavandone ben ventisei chilometri di strisce azzurre. Il gesto, in sé soltanto strumentale, rivisto nel video dell’evento (girato per l’occasione da Tonino Casula) acquista una particolare suggestione. Sembra di assistere a un sacrificio incruento, alla spartizione di un Vello d’oro, anzi celeste. I grandi rotoli si trasformano in un intreccio di lunghe bende, in un filo d’Arianna che per l’occasione è diventato una fascia di jeans.
Le figure più indimenticabili sono le donne anziane col manto nero e il fazzoletto annodato al collo, secondo la consuetudine del luogo. Sembrano personaggi della mitologia, Moire, Parche, filatrici del destino degli uomini. Sembrano, anche, Madonne addolorate, di quelle che i pittori quattro-cinquecenteschi dipingevano coi capelli raccolti nel contorno del soggolo e del manto. E sono bellissime, così cariche d’anni, così concentrate e silenziose, con la trama di rughe che si incide sul loro volto e gli occhi profondi, neri come il vestito e lo scialle ricamato.
Tutto il paese comunque partecipa all’azione, non solo anziani e bambini. A un segnale convenuto tutti si mettono in moto. Giovani dinamici si arrampicano su una scala per sistemare e legare il nastro; donne nel fiore degli anni si sporgono da una finestra per stringere i lembi della benda; uomini di mezza età lanciano la striscia azzurra per assicurarla a un balcone. Alla fine tutta Ulassai è un lavoro di telaio: case, stalle, architetture di ogni genere sono legate tra loro come in un arazzo.
Il risultato è dunque raggiunto, anche se non manca qualche stecca nel coro della festa e qualche critica nell’insieme delle adesioni. Ciò che importa però non è certo l’effetto estetico, sia pure suggestivo, di un paese “infiocchettato”. Il senso dell’azione, al di là dei significati simbolici del legare e del collegare è che uomini, donne, bambini, sono spinti forse per la prima volta nella loro vita a un gesto che non ha un valore utilitario, come può essere lavorare, guardare i campi e il bestiame, pulire la casa, accudire i figli, ma che ha un fine esclusivamente filosofico e estetico. Persone che avevano conosciuto ben pochi libri e musei, si accostano alla pratica dell’arte e ai suoi percorsi espressivi. Legarsi alla montagna diventa così un atto di quella sorta di apostolato laico che Maria Lai svolgerà da questo momento.
Al termine della giornata, quando ormai i nodi sono stretti e i nastri sistemati, l’evento artistico si mescola alla processione che ogni anno si compie in paese l’8 settembre, festa della Natività della Beata Vergine Maria. La gente si incolonna nel corteo diretto alla chiesa e le lunghe bende che avevano collegato le case si allacciano al manto azzurro della Madonna.
Maria Lai non ha voluto scegliere un giorno diverso per la sua azione collettiva perché è sempre stata interessata alle manifestazioni della religiosità tradizionale e non ha mai trasformato la laicità in un dogma o in un culto.
L’8 settembre, d’altra parte, è anche una data storica fra le più tragiche della recente storia d’Italia. L’artista non ha mai accennato a una tale coincidenza, ma non si vede come potesse ignorarla, visto che quell’8 settembre non era più una bambina (nel 1943 aveva ventiquattro anni). Probabilmente non le dispiaceva che un’azione come la sua, impostata su una concordia discors, su un tentativo di allacciare legami interrotti e gettare ponti fra realtà non comunicanti, si svolgesse in una data che ricordava la guerra, e la guerra intestina.
L’azione comunque continua anche il giorno dopo, il 9 settembre. Angelo Persichelli, concertista dell’Orchestra Nazionale di Santa Cecilia a Roma, passa per le strade del paese suonando il flauto, come una sorta di benefico pifferaio magico. Sei esperti scalatori venuti da Cagliari, infine, completano l’evento. Si arrampicano sul monte Gedili, sopra Ulassai, e assicurano il nastro alla roccia. “È un’attesa silenziosa, col fiato sospeso per circa due ore. Quando il nastro si solleva ad arco, dalla montagna ai tetti delle case, sembra un getto d’acqua”, ricorda Maria.
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"Maria nasce il 27 settembre 1919 a Ulassai, piccolo paese sardo nella regione dell’Ogliastra, da una delle poche famiglie agiate presenti nella sua terra. Durante l’infanzia per problemi di salute passa i sei mesi dell’anno più caldi a Ulassai e gli altri restanti nella pianura di Gairo dai suoi parenti. Passando i mesi invernali a casa dei suoi zii dove l’aria è più salubre inizia a scoprire la passione per il disegno che l’aiuta ad evadere dal grigiore e dalla piattezza delle sue giornate. Nel 1928 suo zio decide di togliersi la vita in prigione dopo essere stato incarcerato ingiustamente a seguito di un’accusa di omicidio, per aver sparato al vicino. Da quel momento Maria inizia a passare anche i mesi invernali nel suo paese natale fino al 1932. Il suicidio dello zio purtroppo non è l’unico lutto della famiglia, in quanto, nel 1933 muore anche sua sorella Cornelia. Nonostante l’anno tragico, ha la possibilità di visitare lo studio dell’artista Francesco Ciusa, al quale chiede di posare come modella per rappresentare un ritratto della sorella scomparsa. Qui nel suo studio si appassiona e si avvicina all’arte per la prima volta, rimanendone colpita. Anni dopo i suoi genitori decidono di iscriverla alla scuole medie, dopo aver saltato asilo e elementari. A scuola incontra lo scrittore e insegnante Salvatore Cambosu che le fa scoprire il mondo delle parole. Seppur non incline alla scrittura è interessata e affascinata dal valore e dal ritmo della parola, che conduce al silenzio.
Nel 1939 si presenta un bivio davanti a lei: da una parte il destino che vorrebbero i suoi genitori con un matrimonio e dei figli e dall’altro la sua voglia di indipendenza.
Il suo amore per la libertà la porta a trasferirsi a Roma per continuare gli studi al Liceo Artistico della città. Durante questi anni, affina e incrementa ulteriormente le proprie tecniche artistiche, ciò le permette di essere notata dal docente e scultore Renato Marino Mazzacurati che vede in lei un particolare talento. Finito il liceo, con lo scoppio della guerra, si trasferisce a Venezia dove frequenta l’Accademia di Belle Arti. Qui ha l’occasione di avere come professore lo scultore Arturo Martini. Dopo il diploma e con la fine del conflitto nel 1945 torna in Sardegna dove prosegue il sodalizio con Cambosu, suo ex professore di lettere: per la prima volta Maria ha l’occasione di illustrare una copertina di un libro, in questo caso quella di Miele Amaro (1954). L’anno dopo, nel 1955, organizza una propria mostra personale a Bari e partecipa alla Quadriennale di Roma dove espone insieme alle opere di Lucio Fontana con i suoi famosi concetti spaziali e le opere di Alberto Burri con i suoi Sacchi. Sempre nel 1955 suo fratello minore muore a seguito di un rapimento: da quel momento la Sardegna non diventa un luogo sicuro per lei e così decide di trasferirsi in seguito, nel 1956, a Roma. Nel 1957 presso, la galleria L’Obelisco, tiene una sua mostra personale che vede esposti per la prima volta i disegni realizzati a matita dal 1941 al 1954. Subito dopo la mostra decide di aprire il suo studio d’arte. Nel 1971 torna in scena con la mostra personale nella Galleria Schneider di Roma dove espone i Telai, ispirati fortemente all’Arte Povera. Sono gli anni più significativi per la sua carriera artistica, durante i quali produce opere polimateriche e con materiali spogli come i ready-made di telai o sculture di pani che ricordano le antiche tradizioni della sua Sardegna. Nel 1975 espone la sua mostra personale Tele e Collages presso la Galleria Art Duchamp e nel 1977 presso la Galleria Il Brandale di Savona organizza la mostra I pani di Maria Lai. Grazie al successo della mostra, la curatrice Mirella Bentivoglio decide di esporla alla Biennale di Venezia in un’esposizione esclusiva, dedicata alla produzione artistica di sole donne. Negli anni Ottanta produce la serie di opere Geografie e la serie dei Libri cuciti. Realizza anche numerose opere pubbliche, le più note ovviamente sono quelle in Sardegna ad Ulassai. Negli anni Novanta nella sua arte si nota una stretta connessione con le sue opere precedenti le quali vedono protagonista i segni-disegni che vanno ad unirsi ai fili del telaio o alle produzioni dette Geografie. Maria Lai passa gli ultimi anni della sua vita li passa in Sardegna in un paesino vicino a Cardedu. Inaugura nel 2006 il Museo di Arte Contemporanea Stazione dell’arte che include numerose opere di sua creazione, frutto di anni di studi e ricerche. In questi ultimi anni raggiunge il successo non solo in Italia ma anche nel mondo dove prende parte a molteplici esposizioni artistiche. Muore a Cardedu il 16 aprile 2013.
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// --- OPERA 09
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"Basilio il Grande, si riallaccia all’autopresentazione del profeta Amos, il quale diceva di sé: «Pastore sono e coltivatore di sicomori”, Basilio, presuppone nel suo commentario ad Is. 9,10 questa prassi, infatti egli scrive “Il sicomoro è un albero che produce moltissimi frutti. Ma non hanno alcun sapore, se non li si incide accuratamente e non si lascia fuoriuscire il loro succo, cosicché divengano gradevoli al gusto. Per questo motivo, noi riteniamo (il sicomoro) è un simbolo per l’insieme dei popoli pagano: esso forma una gran quantità, ma è allo stesso tempo insipido. Quando si riesce a inciderla con il Logos, si trasforma, diviene gustosa e utilizzabile”. Nella ‘fuoriuscita’ del succo inoltre sembra alludersi al processo di purificazione. Il Logos stesso deve incidere le nostre culture ed i suoi frutti, cosicché ciò che non era fruibile venga purificato e non divenga soltanto fruibile, ma buono. No, il vangelo è un taglio - una purificazione, che diviene maturazione e risanamento. Il vangelo non sostituisce le diverse culture, non cerca di rivestirle, per dar loro un sapore diverso, cambiando la natura del frutto. Le trasforma internamente, perché diventino feconde.
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"Questa bella tela di Herrera il Vecchio mostra in primo piano la figura di San Basilio. Ispirato dallo Spirito Santo, che gli appare sotto forma di colomba, sopra la testa mitrata, San Basilio, padre della Chiesa d'Oriente, è in atto di scrivere le sue regole monastiche. Con la penna nella mano destra e un libro aperto sulle ginocchia, dove scrivere, il santo è circondato da altri religiosi che hanno fondato i principali ordini monastici della Chiesa cattolica, tra cui si possono riconoscere sant'Agostino (a sinistra), san Benedetto e san Francesco d'Assisi.
Tutti questi personaggi rivolgono il loro sguardo verso san Basilio quasi a dimostrare la preminenza del suo ordine e delle sue regole rispetto a quello che loro stessi hanno poi introdotto.
L'opera ha una forte potenza naturalistica e costituisce uno dei capolavori di Francisco Herrera il Vecchio, che fu attivo a Siviglia durante l'epoca d'oro spagnola.
Nella sua interpretazione san Basilio (330-379) è seduto al centro del dipinto e indossa un abito da monaco, coperto con il pallio bianco con croci nere tipiche della Chiesa cristiana orientale. Questo particolare sottolinea che Basilio è uno dei Padri della Chiesa d'Oriente, mentre la mitra vescovile che porta in testa, simboleggia la sua dignità di vescovo di Cesarea.
Grazie alla ispirazione che gli assicura lo Spirito Santo, simboleggiato dalla colomba sopra la sua testa, Basilio scrive le sue regole monastiche attorno all'anno 360. Basilio è circondato dai grandi fondatori di ordini monastici occidentali, che hanno in qualche modo risentito della sua influenza. Alcuni lo osservano intensamente con in mano una penna o un libro.
Vestito da vescovo, Agostino, che ha fondato le comunità monastiche in Nord Africa, è in piedi a sinistra di san Basilio. Distinguiamo ancora san Benedetto da Norcia sulla destra del quadro. Dietro la linea di questi tre santi Herrera ha dipinto, da sinistra a destra, san Francesco d'Assisi, san Bernardo, san Domenico, e san Berthold, che ha portato i Carmelitani in Europa. In primo piano riconosciamo san Pietro Nolasco e san Giovanni de Matha.
L'opera risale al 1638, quando gli ecclesiastici della chiesa collegiata di san Basilio a Siviglia commissionarono ad Herrera il Vecchio questo quadro, che apparteneva a una pala d'altare con altre nove riquadri. Il tema trattato da Hererra è piuttosto raro nella iconografia, anche se nel 1597, Papa Clemente VIII ha ricordato la preminenza dell'ordine di san Basilio rispetto agli altri.
Herrera è stato uno degli artisti più importanti di Siviglia del primo Seicento e fu chiamato a decorare molte chiese e monasteri della città, tra cui la chiesa collegiata francescana di san Bonaventura, assieme a Francisco de Zurbarán. Il lavoro di Herrera riflette il suo vivace temperamento. L'opera esprime efficacemente le cifre artistiche di Herrera caratterizzate da un forte realismo. I monaci hanno facce dai volti penetrante e dagli occhi espressivi. Il modellato è netto e la pennellata ampia e vigorosa.
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"Pittore, nato a Siviglia nel 1576, morto a Madrid nel 1656. Cominciò a dipingere nella sua città natale al fianco di Luis Fernández. Con le sue opere Herrera preludeva al realismo di Velásquez, e di tutti gli artisti spagnoli del sec. XVI formatisi sui modelli italiani, egli fu quello che abbandonò con maggior franchezza le vecchie tradizioni. I martiri, i condannati a morte, le apoteosi, le visioni apocalittiche furono i soggetti da lui trattati più frequentemente; il suo pennello era violento, come il suo carattere era brutale; ma le sue figure sono piene di dignità. Tra le sue opere più notevoli citiamo: a Siviglia, il Giudizio universale nella chiesa parrocchiale di S. Bernardo, l'affresco della cupola nella chiesa di S. Bonaventura e diversi lavori nel palazzo di San Telmo (provenienti dall'altare maggiore della chiesa parrocchiale di S. Martino) e nel museo provinciale; a Madrid, il Miracolo della moltiplicazione dei pani e il Pentimento di S. Pietro nell'Accademia di belle arti di S. Ferdinando, e un S. Giuseppe nella collezione Lázaro; a Parigi, S. Basilio che detta la sua dottrina (Louvre); a Vienna, Il musicante cieco (collezione Czernin); ad Avignone, L'idiota nel museo locale, ecc. Furono alunni di Herrera: Francisco de la Reina (1620-1659), Sebastián del Llano Valdés, che col Murillo fondò nel 1660 l'Accademia di pittura di Siviglia e il paesista Ignacio Iriarte (1620-1685), oltre al figlio Francesco, detto Herrera il giovane, e a un altro figlio noto col nome di Herrera il biondo, stimato pittore di nature morte. Anche Velásquez frequentò il suo studio, ma lo abbandonò ben presto per il cattivo carattere del maestro. Il suo lavoro legato al naturalismo introdotto in città da Roelas fece di Herrera uno dei pittori più noti di Siviglia. Intorno al 1618, in piena maturità artistica, eseguì la decorazione della Cappella del Collegio di San Hermenegildo. Dalla fecondità della sua produzione mostra il gran numero di opere che ornate vari templi di Siviglia come quelli di San Bernardo o le tele dedicate a Santa Paula nel convento di questo nome. Infine, è opportuno sottolineare il suo intervento in numerosi cicli di pitture murali, come quelli trasportati nella chiesa e nel coro del convento di Siviglia di Santa Inés o nelle volte della chiesa della scuola di San Buenaventura.
La sua vita come pittore nella città di Siviglia era molto complessa a causa delle numerose cause che dovette sopportare. A tal punto, la sua esistenza divenne problematica tanto che nel 1650 lasciò Siviglia per trasferirsi a Madrid, dove rimarrà fino alla sua morte intorno al 1654.
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