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Giovedì 16 Maggio 2024
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MIO FRATELLO E' FIGLIO UNICO
Commedia
di Daniele Luchetti
con Angela Finocchiaro, Massimo Popolizio, Elio Germano, Riccardo Scamarcio, Luca Zingaretti
100 minuti - Italia, Francia 2007

Un buon film, addirittura ottimo soppesando le difficoltà proposte dal soggetto. Mio fratello è figlio unico nasce, infatti, dal confronto tra Daniele Luchetti e il romanzo autobiografico «Il fasciocomunista» di Antonio Pennacchi, che tocca apici di poesia sporcandosi le mani in un grumo di sgradevolezze e miserie umane e ambientali. Il rischio era quello d'uniformare le vicende della «peggio gioventù» pre e post sessantottina al pessimo gusto della commedia politica nostrana, in cui la nostalgia suona querula e la faziosità impazza: Luchetti, restando solo in parte fedele al testo come è giusto che faccia un cineasta, riesce invece a cogliere la fatica e il dolore di vivere di personaggi umani-troppo-umani malmenati dalla microstoria quotidiana. Non c'è spazio per facili identificazioni o tifo da stadio: tra i profili littori di Latina e la desolazione dell'Agro Pontino, quello che va in scena è un rozzo duello politico travestito da questione di famiglia e viceversa. I fratelli contro sono Accio (da sgraziato tredicenne Vittorio E. Properzio e da brufoloso giovanotto Elio Germano), un mezzo teppista inviso persino ai genitori e Manrico (Riccardo Scamarcio), un insolente belloccio aureolato dal fascino a buon mercato dei tempi della contestazione. Missino il primo, gauchiste il secondo: ma il film non fa sconti a nessuno e si concentra nella spigliata quanto impietosa descrizione dei luoghi, degli oggetti e dei comportamenti che impastano l'anima e la carne nelle forme di un'Italietta insieme innovatrice, grottesca e minacciosa. Germano è il migliore in campo, con la sua carica di rabbia commovente e impotente ingenuità; Scamarcio regge bene il ruolo, dimostrando che l'idolatria delle teenagers non può costituire una condanna critica a priori; mentre il valore aggiunto è garantito da tutti i comprimari, tra cui spiccano l'ambulante fascistone Zingaretti e la torbida moglie/amante Anna Bonaiuto. L'ultimo capitolo della ballata è il più debole, perché Luchetti prende la rincorsa e non risolve altrettanto bene la caduta nei buchi neri dei funesti anni Settanta. Resta intatta, peraltro, l'originalità di un'educazione esistenziale che incide senza anestesia un passato (?) fatto di cortei e pestaggi, esaltanti canzonette e cattivi maestri, aberranti ideologie e amori viscerali.
Valerio Caprara (Il Mattino)
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