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GRAN TORINO
Drammatico
di Clint Eastwood
con Christopher Carley, Ahney Her, Bee Vang, Clint Eastwood
116 minuti - USA 2008

Le prime notizie arrivate su Gran Torino parlavano di un Eastwood di pregio, però più semplice, più da "grande pubblico" del solito: non un capolavoro. Ma allora, da che cosa si riconosce un capolavoro? Intanto, la semplicità - quando è unita alla capacità di dire cose importanti - è un pregio, non un difetto. E Clint dice cose molto importanti con estrema, classica semplicità. Nel raccontarci la storia di Walt Kowalski, metalmeccanico in pensione reduce dalla guerra di Corea e fresco vedovo, convoca temi come il razzismo, il rapporto padri-figli, nientemeno che la capacità di amare. Interpretato da Clint, Kowalski è un misantropo che ringhia come un mastino, sta sempre a un passo dal suo fucile M-1, manifesta odio per i "musi gialli" che gli hanno invaso il quartiere. Eppure Walt sa amare, molto più dei suoi grassi e squallidi figli, bravi padri di famiglia americani cui il film riserva tutto il suo disprezzo. Diventato eroe per caso della comunità cinese, il vecchio solitario s'incaricherà dell' educazione - virile, sentimentale, al lavoro - di un timido adolescente asiatico, Thao, proprio quello che ha tentato di rubare la sua auto-feticcio, la Gran Torino del '72 centro simbolico della storia. Un grande romanzo di formazione, e in due sensi: non solo "cresce" il ragazzino, ma anche l'uomo al tramonto della vita. Kowalski consegna al ragazzo le chiavi per il mondo degli adulti, impara che si possono avere molte più cose in comune con i musi gialli della porta accanto che con i propri figli. Semplice ed epico, Clint è più eroico quando estrae un accendino di quando, giovane Callaghan, tirava fuori la sua 44 Magnum. Non basta? In un film che flirta di continuo con la morte, inserisce pause da commedia geniali. Come in tutti i tragici, in Clint alberga l' anima di un grande comico. Che occorre, ancora, per fare un capolavoro?
Roberto Nepoti (La Repubblica)
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