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LA DEA DEL '67
Commedia
di Clara Law
con Rose Byrne, Rikiya Kurokawa, Nicholas Hope, Elise McCredie
118 minuti - Australia '00

Un giovane dandy giapponese, ladro elettronico, collezionista di serpenti e altri rettili, noto soltanto con le iniziali JM, arriva in Australia con 40.000 dollari per perfezionare un acquisto fatto su Internet: un'automobile d'epoca da lui adorata, una Citroen DS (in francese si pronuncia déesse, in inglese si dice Goddess, ossia dea) del 1967, color salmone. Ma il venditore è morto. Una ragazza cieca di diciassette anni, nota soltanto con le iniziali BG, dice di poterlo condurre dal nuovo proprietario dell'auto. Partono. Vanno per il deserto australiano brullo e costellato di morte città minerarie. Il percorso desolato e strano, anche attraverso il passato incestuoso e il presente assassino della ragazza, compone il film: bellissimo, misterioso. Clara Law, la regista di 47 anni, nata a Macao, cresciuta a Hong Kong, operante in Australia, moglie di Eddie L. C. Fong, è straordinariamente brava. Ogni dettaglio del film condensa il mix più contemporaneo di confusione, spavento, indefinita speranza. Ogni abbraccio tra i due ragazzi non è una stretta erotica anche se lo sembra: è una ricerca affamata, esultante e triste di protezione, di tenerezza, è desiderio di vicinanza e di rifugio, delicatezza, malinconia. È perfetto lo stile del racconto, non fluido ma frammentato in attimi esemplari, non cronologico ma sussultante nel tempo (“tre anni prima, trent'anni prima”). Anche se nel film non mancano lungaggini, salti logici, un finale sciagurato, persino gli incesti padre-figlia e nonno-nipote esprimono una sofferenza stoica senza volgarità, senza ambiguità; i due protagonisti, ben diretti, recitano con uno sfinimento e una libertà che ha fatto vincere a Rose Byrne il premio destinato alla migliore attrice all'ultima Mostra di Venezia. Ricco di quell'eleganza dello squallore così attuale, intitolato a uno di quegli oggetti che paiono l'unica forma di ricchezza a tanti ragazzi del Duemila, pervaso da un senso di enigma e di paradosso, La dea del '67 non è un film facile, non somiglia a nessun altro: ma se si riesce a immergervisi si scopre quanto il cinema possa essere profondo, nuovo, struggente.
Lietta Tornabuoni (La Stampa)
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