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Domenica 19 Maggio 2024
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IL PAPA' DI GIOVANNA
Drammatico
di Pupi Avati
con Silvio Orlando, Ezio Greggio, Serena Grandi, Francesca Neri
104 minuti - Italia 2008

Mi succede raramente di sfogliare i libri tratti dai film, un sottoprodotto letterario a puro scopo commerciale, ma qualche settimana fa in attesa di vedere Il papà di Giovanna non ho resistito alla tentazione offerta dall' omonimo romanzo di Pupi Avati (Mondadori). Ebbene, dopo poche pagine la curiosità si è tramutata in interesse e la storia del povero professore di disegno che si ritrova con l' adorata figlia unica colpevole di uno spaventoso delitto, non l' ho più mollata: mi premeva sapere in quale modo l' autore giunto al momento di tirare le fila di un dramma seguito passo passo dal ' 38 al ' 53, si sarebbe sbrogliato da un tale groviglio di pene perdute, angosce e lacerazioni. Ha funzionato, insomma, l' infallibile molla del «come andrà a finire?» che la narrativa contemporanea spesso trascura. Mentre leggevo, istintivamente cercando precedenti alla scrittura nitida e sapiente di Pupi, mi sono venuti in mente Mario Soldati, Piero Chiara e altri inventori (o riecheggiatori?) di vicende similvere. E ho subito avvertito la particolarità di un testo che sembra ritagliato da uno dei referti di ordinaria criminalità imperversanti su giornali e tv, quelle azioni orrende, patologiche, immotivabili su cui fanno a gara per intervenire, spesso a sproposito, orde di intervistati-squillo. Ma qui l' origine del fattaccio è allontanata in un periodo della vita italiana in cui la dittatura vietava l' abuso (se non addirittura l' uso) della cronaca nera; e dove il peso della politica si faceva sentire nelle indagini poliziesche e nelle decisioni della magistratura. Ciò che ha fatto Avati, precisando e puntualizzando le allusioni del film al culmine dell' era fascista e alle sue disastrose conseguenze, si chiama tramutare in storia la contemporaneità o, visto in senso contrario, leggere il presente alla luce del passato. All' ordito del libro il film somma la capacità del cinema di evocare in diretta gli ambienti attraversati: e qui fin dai titoli di testa, che fanno sfilare le foto dei protagonisti in simpatici e comuni atteggiamenti d' antan, la narrazione per immagini si annuncia come si conviene tra incredulità e distacco, umana comprensione e ironia. E' il trionfo dell' «Avati touch» nel suo film forse più bello, certo più padroneggiato e maturo: un apologo che invita a guardare il mondo, nelle sue brutte storie di ieri e di oggi, senza morbosità né acrimonia. Attingendo in fondo, con il massimo pudore e senza sottolineature di sorta, a una lezione d' amore. Una simile delicata partitura aveva bisogno di esecutori ispirati; e qui c' è un quartetto di autentici virtuosi. Silvio Orlando si comporta da primo violino senza esuberanze né esibizionismi, in una chiave intimista di sapore quasi dostoevskiano: lo si accoglie, prima che nella sua qualità di grande attore, come un fratello. Una coraggiosa e bellissima Francesca Neri gli tiene testa trovando toni aspri e risentiti, confermandosi interprete dalla gamma incredibilmente estesa. Forte è il segno di Alba Rohrwacher, che trova una chiave di apparente innocua normalità per addentrarsi negli oscuri territori della follia. E una rivelazione addirittura è Ezio Greggio, che si trasforma per l' occasione in un comprimario da Hollywood, capace di attirare l' attenzione con una tragedia tutta sua. Tornando alla Mostra si potrebbe dire che la montagna ha partorito il topo: una montagna di applausi in Sala Grande, oltre dieci minuti con l' autore commosso fino alle lacrime, e un premio finale di liquidazione al solo Orlando. Ma sulle incongruenze delle giurie si polemizza a vuoto da troppo tempo, mentre è chiaro che su questo fronte per tutti i festival sarebbe ora di cambiare.
Tullio Kezich (Corriere della Sera)
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