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IL RACCONTO DEI RACCONTI - Tale of tales
Fantasy
di Matteo Garrone
con Salma Hayek, John C. Reilly, Christian Lees, Jonah Lees, Alba Rohrwacher
125 minuti - Italia, Francia, Gran Bretagna 2015

Al di là dei tanti, troppi discorsi che si sono fatti sul trittico di italiani presente a Cannes, su una "vetrina", per il nostro cinema, che di fatto continua a contare sempre sugli stessi nomi, su uno status della cinematografia italica che, nella sostanza, resta immutato, va detto che l'operazione di Matteo Garrone con questo Il Racconto dei Racconti presenta molti motivi di interesse. La cosa che, a nostro avviso, va maggiormente sottolineata del progetto fantasy portato avanti dal regista italiano è il suo enorme coraggio: da tempo, in Italia, si parla di riscoperta dei "generi", di (ri)costruzione di un'industria che sappia guardare al pubblico, che possa coniugare sostanza e intrattenimento, attenzione alle proprie peculiarità e respiro internazionale; ma la vitalità maggiore, sul fronte di un cinema capace di osare e rompere gli schemi, si è finora registrata nel vasto sottobosco del cinema indipendente. Garrone, invece, decide con questo progetto di rischiare: lo fa, innanzitutto, scegliendo un filone (il fantasy) che non ha una solida tradizione all'interno della nostra cinematografia, almeno non quanto altri maggiormente frequentati (il peplum, l'horror); e lo fa, soprattutto, evitando di ricalcare pedissequamente i modelli anglosassoni, ma provando a percorrere al contrario una via locale al genere. La scelta di Giambattista Basile è tutta interna a questa proposizione: scrittore secentesco, utilizzatore del napoletano antico, autore di fiabe che furono d'ispirazione agli scrittori del genere più noti (i fratelli Grimm, Charles Perrault, Hans Christian Andersen). Una figura poco frequentata quanto feconda per le storie e le suggestioni che ha prodotto, finora colpevolmente ignorata dal grande schermo. Ideale, soprattutto, per tenere insieme quei due elementi (il respiro internazionale e il radicamento delle storie nelle tradizioni autoctone) che dovevano informare il progetto. La selezione delle tre storie di cui il film si compone, sulle cinquanta contenute nell'originale raccolta Lo cunto de li cunti, dev'essere stata tutt'altro che facile. Tuttavia, malgrado lo stesso regista abbia ammesso essersi trattato di lavoro travagliato, e di aver persino iniziato ad adattare, per poi scartarle, alcune delle altre storie del libro, la scelta finale mostra senso e compattezza: i tre racconti, infatti, rivelano una certa continuità contenutistica tra loro, ma soprattutto mostrano temi che ben si adattano alla poetica del regista. Più che soffermarsi sulla declinazione al femminile delle tre storie (particolare che lo stesso Garrone ha rivelato esser dovuto più a un caso che ad altro) vanno sottolineati, a nostro parere, i motivi che da esse emergono e che da sempre sono congeniali al regista: quelli del potere, della manipolazione, della trasformazione del corpo. Così, il tema del potere e quello delle disparità sociali come motori degli eventi sono presenti, trasversalmente, in tutte e tre le storie: nell'egoismo tormentato e motivato de La regina, nell'insensata, paradossale e niente affatto "democratica" messa in scena di un matrimonio offerto al popolo (e conclusosi con l'esito più beffardo) ne La pulce, nella meschinità che contagia come un virus, ringiovanendo il corpo ma facendo marcire l'anima, de Le due vecchie. Parallelamente, l'ossessione per la trasformazione del corpo, e per il rimodellamento di un altro essere (vivo o morto) a proprio piacimento, tornano con forza nel secondo e nel terzo segmento; così come quel motivo dell'illusione ossessiva, egoistica, che tende a distorcere e piegare a sé la realtà, che aveva rappresentato il tema principale di Reality, viene qui a informare di sé sia le azioni della Salma Hayek de La regina, sia quelle del capriccioso, "cieco" re interpretato da Vincent Cassel ne Le due vecchie. Motivi moderni, tanto presenti, con intensità diversificate, all'interno dei racconti originali, quanto rielaborati dal regista e inseriti nel solco del proprio approccio alle storie. Garrone ha sottolineato, presentando il film, che Il racconto dei racconti è opera pensata essenzialmente per il pubblico, che si pone come scopo principale quello di intrattenere. E proprio il pubblico viene facilmente irretito dalla complessità della costruzione visiva, facilitato nell'empatia dalla sempre presente dimensione realistica dei tre drammi presentati (pur nel loro tessuto fantastico). Cineasta tecnicamente tra i più dotati del nostro cinema, Garrone tiene a bada la tendenza al virtuosismo, ma confeziona comunque sequenze magistralmente dirette (lo scontro di John C. Reilly col drago marino), unite ad alcune fulminanti intuizioni visive e tematiche (la regina che, corrosa dal desiderio di maternità, ignora il corpo del marito; il labirinto in cui la stessa donna si perde inseguendo il figlio Elias). Il barocchismo delle scenografie è contrappuntato costantemente dalla componente gotica, che a volte si traduce in soluzioni narrative all'insegna del grottesco (gli sviluppi dell'"allevamento" della pulce, il destino della seconda sorella nel terzo racconto) ma comunque mai sopra le righe. Il problema principale del film, tuttavia, è che paradossalmente (dato il suo carattere popolare, e la già ricordata vicinanza delle storie scelte ai temi della modernità) la sua costruzione narrativa risulta per larghi tratti fredda, quasi cervellotica. Portato quasi a forza nell'universo del film dal suo sfarzo visivo, incuriosito dal registro realistico con cui la sceneggiatura presenta le vicende, lo spettatore fa tuttavia fatica a raggiungere una reale empatia coi personaggi; le loro storie, per una buona metà della durata, faticano a prendere consistenza, a scavare nell'anima dei personaggi, ad entrare in risonanza emotiva con chi guarda. Si resta dapprima affascinati dalla traduzione in immagini dell'universo di Basile, ma il coinvolgimento nei temi trattati resta, inizialmente, ad un livello solo intellettuale. Parte del problema, probabilmente, sta nella scelta di narrare le tre storie alternandone piccoli segmenti, senza che ve ne sia una reale necessità: poiché gli unici incroci sono posti all'inizio e alla fine, una presentazione sequenziale avrebbe probabilmente giovato all'armonia e alla compattezza del tutto. Tuttavia, malgrado l'iniziale macchinosità, e la tendenza alla lungaggine che il film mostra nella sua prima metà, lentamente le tre storie acquistano quella consistenza inizialmente solo invocata, scavando nella materia viva (immagine che, nel caso specifico, risulta un po' più di una metafora) del loro carattere popolare, restituendo quella passionalità che, pur virata alla cupezza e al pessimismo, rappresenta il più importante trait d'union tra il film e i racconti originali. Pur prendendosi gioco, con uno sguardo un po' beffardo, di drammi e miserie dei suoi personaggi, e pur concludendo il film con un quadro generale all'insegna della disillusione (virata al grottesco) il regista non lesina in empatia; mantenendo salda quella presa sulla componente emotiva delle storie che il film aveva inizialmente faticato a raggiungere. Una presa che alla fine, pur non facendo dimenticare i limiti e le sbavature che quest'opera mostra, fa pendere la bilancia dal lato positivo, nella valutazione di questa nuova operazione di Garrone: se è vero (e l'abbiamo specificato in apertura) che il coraggio non manca, lo stesso risultato, pur imperfetto, risulta ricco di suggestioni, motivi di interesse e fascino. L'averlo raggiunto in un'opera (a suo modo) tanto radicale, specie se vista nel contesto di una cinematografia come quella italiana attuale, è senz'altro motivo di merito.
Marco Minniti (Movieplayer.it)
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