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Martedì 19 Marzo 2024
Parrocchia S.Stefano
di Osnago
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dal 1911 agli anni '70

Storia dell'Oratorio (dal 1911 agli anni ‘70)

L’URATORI

Qualche tempo fa, ebbi l‘occasione di ammirare in un armadio del nostro Comune qualche vecchia bandiera di associazioni combattentistiche osnaghesi. Taluna di esse è letteralmente ridotta a brandelli, ma è lì ancora a testimoniare le glorie del passato. Mi si riaffacciò allora alla mente un antico proverbio: “Bandiera rotta, onor di capitano!“
E mi sovvenne di un’altra bandiera, d’altri tempi e d’altro luogo, ma pur sempre significativa: la bandiera dell’oratorio maschile. Portava la scritta: ORATORIO MASCHILE S. GIUSEPPE
OSNAGO - ANNO 1911


Di essa non c’è più traccia. Così come non si fa più menzione del patrono dell’oratorio maschile: S.GIUSEPPE.
E nella memoria non c’è solo il ricordo della bandiera, ma trovano pur posto i timbri con i quali venivano segnati i documenti redatti in oratorio: le tesserine di frequenza e i ciclostilati prodotti nell’ambito delle varie attività.
L’oratorio! Quello fondato da don Carlo Dassi nel 1911 era ben poca cosa rapportato all’elevato numero di frequentanti. Consisteva in due ali di fabbricato. Quella prospiciente Via Gorizia comprendeva l’ingresso, il salone da teatro che fungeva anche da cappella e l’abitazione dell’assistente della gioventù maschile. L’ala a ovest comprendeva solo due o tre salette: quella per le riunioni consiliari e quella in cui era custodito il tavolo da biliardo. L’una e l’altra venivano comunque utilizzate anche per la catechesi destinata ai giovani. Avveniva lo stesso per il salone che racchiudeva, separato da due grandi porte scorrevoli, un semplice embrione di cappella: l’altare con la statua di S.Giuseppe e quella di S.Luigi.
Fra queste due ali di fabbricato e un porticato che sorgeva a sud, era racchiuso un angusto cortile delle dimensioni di circa 20 metri per 30. In esso riuscivano ad essere contenuti e a muoversi a stento i 200-250 fra ragazzi e giovani che allora frequentavano assiduamente l’oratorio ogni domenica. Ne rimanevano esclusi i ragazzi di prima e seconda elementare che venivano affidati alle cure delle suore, nell’adiacente asilo infantile, Al centro del cortile sorgevano due magnifici pioppi ai quali era assicurata un’altalena retta da catene. Su di essa si avvicendavano ragazzi d’ogni età. Al termine del porticato, subito dopo i rudimentali servizi igienici, c’era un cancelletto attraverso il quale si accedeva a ridottissimo campo per il gioco delle bocce. Proibito l’ingresso a chi non ne fosse esperto! Tutto qui l’oratorio d’allora, anche se costituiva l’unico ambiente di ritrovo di tutta la gioventù maschile, almeno fino a dopo il servizio militare di leva. Poi il numero dei giovani si riduceva, di norma, non di poco. Nelle condizioni di cui s’è parlato, si avvicendarono quali assistenti diversi sacerdoti coadiutori: Don Carlo Vergani che in precedenza era residente in Via S.Carlo, in locali attigui alla curt di Maregnott, (l’attuale casa di accoglienza) Don Francesco Gariboldi, Don Giuseppe Sironi che però provvide a più riprese ad ampliamenti e trasformazioni di vario genere. Pur con il minimo indispensabile per attivare una decente formazione cristiana di ragazzi e giovani, ognuno di codesti assistenti ebbe a svolgere una peculiare azione pastorale all’interno dell’oratorio, spesso anche con apprezzabili risvolti sociali.
Don Carlo Vergani è tuttora ricordato come il fondatore della banda musicale osnaghese. Era infatti musicista e compositore di non indifferente levatura. Vive ancora nei ricordi dei più anziani del paese.
Don Francesco ha operato nell’oratorio per circa un decennio. ln seguito è diventato nostro parroco. Quando giunse tra noi come assistente oratoriano non era novello sacerdote. Aveva maturato altre esperienze, in particolare come coadiutore nella Bassa Milanese.
Sacerdote ricco di umanità, di saggezza e di alti valori morali, pur non godendo di avvincente facondia, seppe incidere profondamente nell’educazione religiosa della gioventù di quei tempi. Si deve alla sua intraprendenza l’istituzione in settembre della Festa di S.Luigi quale patrono della gioventù. Volle che se ne preparassero le celebrazioni utilizzando ben sei domeniche precedenti, durante le quali giovani e ragazzi si accostavano costantemente ai sacramenti e si sottoponevano all’ascolto di conversazioni formative. Inoltre, consapevole che la frequenza scolastica per quei tempi (anni 30) forniva un’istruzione piuttosto limitata, egli stesso allestiva all’interno dell’oratorio alcuni corsi di istruzione per l’ampliamento delle conoscenze strumentali e degli orizzonti culturali. In collaborazione col parroco Don Emilio Figini formò e incrementò la compagnia teatrale maschile. Non era particolarmente intonato Don Francesco, ma si prendeva cura di puntualizzare l’esecuzione dei canti religiosi per le sacre funzioni in modo da favorire la partecipazione corale della popolazione giovanile a tutte le cerimonie liturgiche che, allora, si svolgevano completamente in lingua latina.
Mite e benevolo, fu sempre stimato e onorato dalla gioventù e da tutta la popolazione osnaghese. Lo stesso Don Emilio volle che gli succedesse nella reggenza della parrocchia dopo il suo decesso. Infatti, Don Francesco fu poi parroco di Osnago dal 1939 al 1972.
Don Giuseppe Sironi. Appena ordinato sacerdote, nell’estate 1940, iniziò la sua attività pastorale fra noi e la ultimò nella festa di S.Giuseppe dell’anno 1962. Ventidue anni di intensa, varia e proficua attività all’interno del nostro Oratorio maschile. Su alcuni principi era piuttosto intransigente Don Giuseppe. Lo si sentiva talvolta ripetere: “O così, o qui non c’è posto con chi vuoi fare diversamente”. In realtà poi c’era anche posto per diverse posizioni alternative.
Quando arrivò ad Osnago, il novello sacerdote non aveva una diretta esperienza della vita d’oratorio. Al suo paese, Valle Guidino, non ne esisteva traccia. Tuttavia, avendo trovato avviate parecchie attività che gli erano congeniali vi si dedicò con immediato fervore. Aveva anche un discreto senso degi affari, Don Giuseppe. Ma la congiuntura tipica del tempo di guerra non gli fece immediatamente intravedere la possibilità di quegli ampliamenti dell’ambiente oratoriano che invece lo coinvolsero in seguito.
Una cosa va indubbiamente sottolineata: i 22 anni trascorsi fra noi videro in lui un’attività così fruttuosa e convinta che ancor oggi se ne può verificare l’efficacia. E’ di queste attività che mi attarderò ad occuparmi con descrizioni penso appropriate e dense di ricordi certamente cari a tutti quanti condivisero in oratorio momenti impegnativi e gratificanti probabilmente irripetibili.

SCHOLA CANTORUM

Il piccolo armonium trasportabile produce una musica appena percettibile. Al tocco dell’organista Giovanni Maggioni (che già don Francesco aveva fatto istruire all’insigne Don Baraggia direttore della cantoria del duomo di Monza) le brevi note introduttive di un mottetto del Perosi innescano presto il coro di voci maschili che da tempo costituiscono la cantoria nostrana. Sono voci sicure, ben esercitate da precedenti direzioni da parte di Don Vergani e di Don Figini. Ora Don Sironi si sente impegnato a proseguirne e consolidarne l’opera. Qui in oratorio, con incontri periodici, spesso settimanali o bisettimanali, i cantori si cimentano nell’apprendimento di composizioni musicali di notevole valore e di squisito effetto liturgico. A Natale, a Pasqua, alle feste Patronali, alle quarantore e in altre occasioni solenni i brani preparati qui in oratorio animeranno gioiosamente le liturgie della Chiesa Parrocchiale. E lo faranno per oltre due decenni grazie alla collaborazione di Don Giuseppe che, ereditatane la direzione, valorizzerà la cantoria in efficienti prestazioni corali.

TEATRO

Dopo un fugace sguardo alla sala gremita di panche senza schienale e di sedie dal sedile impagliato tutte ben allineate e senza dubbio accoglienti, Don Giuseppe impartisce l’ordine di chiudere il sipario: “C’è già gente all’uscio d’ingresso per acquistare i biglietti. Fa freddo; è l’ora di aprire le porte”. In un batter d’occhio gli ordini vengono eseguiti. Il palcoscenico è addobbato di tutto punto; non resta che accogliere il pubblico.
E questo non si fa attendere. In men che non si dica la sala si riempie. C’è gente d’ogni età. Dai bambini, agli anziani. Tutti ansiosi di assistere ancora una volta all’interpretazione di una commedia il cui effetto non ammette dubbi. Sono bravi i nostri attori.
Due sono le compagnie oratoriane. L’una e l’altra sono composte da interpreti appassionati ed espressivi da accattivarsi meritevolmente l’animo plaudente d’ogni spettatore. E’ gelida la sala. C’è si una stufa in maiolica all’angolo di testa, in simmetria al pianoforte, ma non c’è legna. E’ tempo di guerra e purtroppo il combustibile manca anche nelle abitazioni. Comunque, per lenire un poco i disagi e non buscarsi qualche malanno, pur di non perdersi il teatro, ognuno s’è arrangiato come ha potuto. S’è recato da casa un ribollente mattone in terra refrattaria, ben predisposto in precedenza nel forno della propria stufa e ricoperto poi in modo da non procurarsi ustioni. Qualcun altro reca una bolle d’ottone piena di acqua calda. Così sarà senz’altro meglio.
All’aprirsi del sipario, si diffonde la magica attesa dei primi personaggi. Tutti sanno che i protagonisti, magari, appariranno più tardi. Ma... l’inizio è pure importante. Poi, lungo il corso dell’avvincente commedia scoppiano fragorosi gli applausi, spesso fra malcelate lacrime di commozione. La compagnia teatrale ancora una volta ha fatto centro. Ha aperto una breccia nei cuori che sarà difficile cancellare. “E un’interpretazione magnifica” dirà qualcuno. La voce si diffonderà. Seguirà qualche replica, spesso fuori paese, senz’altro.
E un teatro osnaghese fatto di poche cose, ma di tanto entusiasmo e di un generoso, immancabile impegno che merita plauso e anche riconoscenzai!

* * *

In un recente ritrovo fra vecchi interpreti osnaghesi qualcuno ebbe a commentare: “Se a quei tempi avessimo potuto possedere la cultura e la preparazione dei giovani d’oggi, il nostro entusiasmo e il nostro impegno ci avrebbe condotto a grandi cose”.
Gliene si può decisamente dare conferma. Un grato ricordo comunque!

DON GIUSEPPE e SAN GIUSEPPE

L’assistente ed il patrono erano omonimi. Così il 19 marzo divenne per il paese e soprattutto per gli oratoriani sinonimo di grande festa. Per l’occasione, spalancate le ampie porte scorrevoli che delimitavano e nascondevano l’altare con la statua del santo, messi a lucido candelabri e addobbato l’altare con le tovaglie delle grandi occasioni, si celebrava all’oratorio la messa solenne. Nel salone. In un tempo in cui era cosa rarissima.
Non c’era altro verso. Venivano rivolte all’altare quelle sedie e quelle panche che altrimenti guardavano al palcoscenico.
La sala, improvvisata a cappella, veniva questa volta gremita di fedeli per la celebrazione eucaristica; e poi, terminato il rito, c’era la presentazione del dono che i ragazzi offrivano al loro assistente nella ricorrenza del suo onomastico. Si trattava talvolta di un dono semplice: una statua della Madonna, una macchina per scrivere o... Un anno, in gran segreto si riuscì a raccogliere la somma sufficiente per offrire a Don Giuseppe una piccola moto Guzzi. Un güssett! Rosso per di più. Doveva essere un assoluto segreto. Don Giuseppe non se l’aspettava certo. Per i suoi spostamenti nei paesi circonvicini usava una bicicletta nera che, pur avendo il cambio per agevolare le salite, era piuttosto malandata e non sempre affidabile. Perciò, zitti zitti, pieni di entusiasmo e di fervore, i giovani, i ragazzi avevano provveduto all’acquisto, ne avevano custodito gelosamente la sagoma camuffandola a dovere e nascondendola magistralmente in un luogo inaccessibile. Avevano già predisposto la messinscena della sorpresa. Quando... qualche giorno appena prima della festa, uno sconsiderato usci a dire fresco come una rosa: “Don Giuseppe, ora basta con quella bici sgangherata; fra qualche giorno le regaleranno una bella moto Guzzi!” Aveva dell’incredibile. Il sacerdote non voleva neppure immaginarselo. Ci fu chi provò a smentirglielo, ma ormai era fatta. Per quel “S.Giuseppe” don Giuseppe ebbe il suo smagliante motoveicolo. Non più come una vera sorpresa, ma tanto gradito e tanto utile. Ne fanno fede i motivi che ricorderemo più avanti, date le molteplici iniziative che costrinsero via via don Giuseppe ad ampliare i raggi dei propri spostamenti all’interno del circondario e oltre. Sempre, naturalmente, a vantaggio del suo oratorio e dei suoi ragazzi.

EDUCAZIONE RELIGIOSA IN ORATORIO

Cantano. Sono voci giovanili. Provengono dal salone che anche per oggi è trasformato in cappella. Non c’è verso. Quest’oratorio è stato concepito così. Per un paese ad economia prevalentemente agricola, non dev’essere stato facile racimolare i fondi per costruirne uno migliore. Intanto però mancano le sale perfino per la catechesi. E poi, nonostante il salone sia ampio, è necessario effettuare turni fra ragazzi e giovanotti per la cerimonia religiosa. Prima i giovani; e per loro l’assistente fa una vera e propria omelia ed eventualmente risponde ad obiezioni corrispondenti. Viene poi impartita la benedizione con la reliquia della Madonna e i giovani possono tornare liberamente ai loro passatempi domenicali. Coi ragazzi è un po’ diverso. Dopo un’oretta di catechismo dentro qualche luogo di fortuna, spesso nel sottopalco o nell’atrio dell’ingresso, vengono convogliati in salone per la loro funzioncina. Sono piuttosto irrequieti però tanti ragazzi insieme. E l’occhio vigile di Don Giuseppe individua immediatamente chi prende le cose alla leggera e magari compie qualche azione di disturbo. Così, impartita la benedizione, allorchè la folta schiera gli va sfilando dinanzi per l’uscita, c’è chi viene fermato per una portentosa tirata d’orecchi. Non in senso metaforico; s’intende! Il malcapitato se ne esce brontolando, ma non c’è remissione.
In oratorio si ascoltano le lezioni di catechismo, si ripetono a memoria le formule assegnate per lo studio; e in cappella ci si comporta come si deve. I trasgressori non la passano liscia.
Le punizioni non li allontanano poi? Non pare. Tant’è vero che ogni domenica il rito della tirata d’orecchi si ripete ora per l’uno ora per l’altro e, volentieri, proprio nei confronti degli stessi. Il tutto condito da: “Salve mater misericordiae”, “Virgo verbum concepit” e “Maria mater gratiae!”

I BUMBON

C’era una specie di scaffalatura orizzontale. Veniva posta su di un tavolino o appoggiata a qualche sedia. Vi si affollavano intorno schiere di ragazzi sfilando dalle tasche qualche moneta da spendere in dolciumi.
Com’era possibile, almeno la domenica, non gustare qualche caramella o la liquirizia, i diavulott o quei dolci legnetti che chiamavamo “lücamar” o i coloratissimi calimeri? Negli scomparti della tavolozza c’era di tutto. Esisteva solo l’imbarazzo della scelta, secondo le proprie momentanee preferenze o in supporto alla consistenza della mancia ricevuta prima di uscire di casa. Purtroppo c’era anche chi sgranava gli occhi esibendo desideri impossibili per mancanza di fondi. Tempi così!
Qualche capofamiglia parlava chiaro: “Siete tanti fratelli. Cerco di non lasciarvi mancare l’indispensabile. Il superfluo, purtroppo non posso assicurarvelo”. Allora non c’era da meravigliarsi se più d’uno si rincantucciava in un angolo a osservare meditabondo i propri coetanei che, invece, il superfluo l’avevano evidentemente conseguito. Talvolta, una manina pietosa si protendeva: “Me lo fai assaggiare?” e ne riceveva in cambio una leccatina furtiva; a volte però un inequivocabile rifiuto. La cortesia d’altri appariva invece commovente: “Ne vuoi un po’? Tieni; tu non hai nulla. Facciamo un po’ per uno!”
La sensibilità non è un patrimonio comune, indistinto, obbligatorio. Neppure fra chi sta dentro un ambiente di formazione religiosa. A volte è patrimonio ereditato. A volte viene accumulata apprendendola dal buon esempio familiare. Spesso viene inibita da prepotenti egoismi che inducono a pensare solo a sè stessi e a delegare ad altri alcune forme di soccorso o di condivisione. Anche in oratorio. Così come altrove.

SFILATA Dl CARRI IN PASSEGGIATA

Le messi biondeggiavano prospettando a breve termine la non indifferente fatica della mietitura. Nei campi occhieggiavano papaveri e fiordalisi a rendere più varia la doratura delle spighe. Gli uccelli riempivano di trilli le giornate ormai assolate. Bisognava far presto. Allora venivano contattati i contadini che possedevano un cavallo in buono stato e un carro capace di contenere su per giù una dozzina fra ragazzi e giovani.
Spesso si raggiungeva la ventina di veicoli. Fiocchi variopinti ai cavalli, campanelli luccicanti ai finimenti, ritocchi alla verniciatura dei carri e panchine, sedie illiscate o balle di paglia adatte ad accogliere le allegre brigate giovanili.
L’oratorio era in trasferta. Per una domenica sola; ma quanta allegria! L’appuntamento era in oratorio per le quattro del mattino. Un cielo stellato, in un paese senza lumi per l’imperversare dell’oscuramento, accoglieva i bimbi e le madri che li accompagnavano o i giovanotti che formavano le squadre. “Tu sul carro dei Picitt. Quel gruppo va sul quello dei Tubei. Questi altri sono destinati ai Cinc Port. Il carro del Trecate accoglierà quelli delle Orane e dell’Aurora. Il centro paese: al Ramett, ai Grisitt e ai Maregnott...” Insomma grande fermento e organizzazione impeccabile. Alle cinque, cinque e mezza si partiva. Proprio quando dai campanili, giungevano festosi i rintocchi dell’Ave Maria. Non dirado si veniva raggiunti anche dal suono delle sirene. Erano segnali d’allarme per l’approssimarsi di qualche incursione aerea.
Nella gita a Erba, ad esempio, prima di indirizzarci a visitare il Buco del Piombo, ci raggiunsero i rombi dei bombardieri e si udirono gli scoppi delle bombe. Tuttavia l’allegra compagnia degli oratoriani osnaghesi non desisteva dall’avventurarsi ogni anno in queste escursioni che rendevano meno penosa la vita nel funesto periodo bellico. Se ne ricordano in tanti; nonostante tutto. E a buona ragione!

ANCHE IN ORATORIO I SEGNI DELLA GUERRA

Tre episodi: gli sfollati, le bombe di Pippo e quella triste bomba a mano scoppiata il 4 ottobre 1945 allorchè la guerra sembrava ormai da dimenticare.

* * *

Dopo i terribili bombardamenti dell’agosto ‘43, i milanesi si convinsero a lasciare al più presto la città, in cerca di un rifugio più rassicurante.
Bisognava partire! Partire sì, ma per dove? Chi aveva qui in Brianza parenti o conoscenti implorò ospitalità presso di loro. E l’ottenne. Nei limiti del possibile, certo. Tuttavia non c’era cortile o cascinale che non accogliesse al proprio interno almeno qualche famiglia di sfollato. Non facevano eccezione i ricchi del paese. Ne avevano parecchi anch’essi. E gli altri? Cioè quelli che si sentivano completamente forestieri? Per loro occorreva sfidare la sorte, andare alla ventura.
Così vennero qui tra noi alcuni che abitavano sì a Milano ma provenivano dal sud, completamente sconosciuti e sconfortati. Esasperati perché ormai non trovarono più un buco, si rivolsero alle istituzioni.
Trovando resistenze, alle implorazioni aggiunsero le pretese; alzando il tiro, giunsero alle minacce.
Alcune famiglie finirono con l’occupare un paio di aule delle scuole elementari, altre puntarono sull’Oratorio, sulla Parrocchia. Non dev’essere stato facile per don Giuseppe salvaguardare la possibilità di mantenere disponibili quei pochi locali che permettevano all’oratorio di funzionare. Tant’è che dovette cedere alle pressioni e alle insistenze perfino irriverenti. Cosa non è capace di fare la guerra!
Furono dunque occupate dagli sfollati le aulette dell’ala ovest.
Così per qualche anno, l’oratorio funzionò alla meglio. Condivise cioè i disagi e le ristrettezze di chi certamente sfortunato doveva far fronte a inevitabili disavventure per salvare almeno la vita.

* * *

Era la notte in cui l’insurrezione nazionale raggiungeva il suo culmine. E Pippo lasciò le sue ultime bombe proprio qui, a Osnago, proprio nella zona dell’oratorio. Era, Pippo, un apparecchio che nottetempo sorvolava anche i nostri paesi per verificare che l’oscuramento venisse scrupolosamente rispettato. Purtroppo proprio quella notte, per scarsa cautela o per malaugurata coincidenza, al Milanino ci fu una finestra spalancata con la luce accesa. La reazione di Pippo fu repentina e inesorabile. Più d’una delle sue bombe cadde anche all’interno dell’oratorio. Ne ricordo una interratasi proprio presso l’altalena, ai piedi di un pioppo alla quale era agganciata.
Noi del ‘34 dovevano fare la comunione solenne, quella mattina. L’appuntamento era per tutti qui all’oratorio per poi recarci in chiesa ben schierati e composti. Invece, quando giungemmo qui, pur trovando le porte spalancate venimmo messi in guardia dall’entrare. lo con altri miei compagni, sgaiattolai dentro il cortile. Ci gridarono contro, ci prelevarono a forza e ci cacciarono fuori. Era evidente il motivo di questo comportamento. Avevamo tutti potuto constatare la gran buca prodotta dalla bomba e comprendevamo perciò le precauzioni che i responsabili stavano prendendo. L’oratorio, seppure in extremis, era stato colpito da una guerra che, per fortuna, sembrava essersi ormai definitivamente conclusa.

* * *

Quand’era l’ora di troncare ogni attività e perfino il gioco per recarsi in cappella e partecipare alla funzioncina conclusiva della giornata oratoriana, un incaricato afferrava per il manico una considerevole campanella e, scuotendola energicamente, la faceva squillare per chiamare a raccolta tutti i ragazzi. Quel pomeriggio del 4 ottobre 1945 lo squillo della campanella ebbe come riscontro uno scoppio terrificante. Sopravvenne uno sbalordimento, un parapiglia, un fuggi fuggi convulso, un accorrere presso un gruppetto di ragazzi che essendosi attardato un attimo nel gioco, si era visto scoppiare addosso una bomba a mano. A terra giaceva il corpo esamine del più sventurato di essi. Un altro doveva essere pure rimasto danneggiato, tanto fulmineamente venne trascinato via da alcuni giovanotti. Come fosse finito nelle loro mani l’ordigno bellico: mistero fu e mistero rimane. Però non è del tutto svanito dalla memoria quel terribile evento. Il suolo dell’oratorio, sebbene non più visibilmente segnato, reca ancora la triste menzione della morte di un fanciullo che dal gioco è passato istantaneamente all’aldilà sempre per colpa della guerra.

IL PRIMO AMPLIAMENTO

Ho già ricordato come don Giuseppe fosse sentitamente devoto di S.Giuseppe. Anzi ostentava ammirazione per un altro Giuseppe, anch’egli sacerdote, santo, ed estremamente fiducioso nella Divina Provvidenza: S.Giuseppe Cottolengo. Durante uno dei suoi fervorini prima della benedizione dei suoi ragazzi, don Giuseppe svelò un segreto, una sua aspirazione. Per circostanziare meglio quanto stava per rivelare, raccontò un aneddoto. Disse che il Cottolengo, dopo aver fondato la sua Casa della Provvidenza in Torino, non navigasse certo nell’oro, ma tuttavia confidava nell’aiuto divino per conferire alla propria istituzione sempre maggiori possibilità di accoglienza. E i bisognosi d’essere accolti aumentavano sempre più; anzi avevano già raggiunto una ragguardevole consistenza numerica. Esisteva però il problema di provvedere alle loro quotidiane necessità; perlomeno occorreva sfamarli. Se ne rendeva perfettamente conto il fondatore.
Un giorno mentre era in preghiera dinanzi al tabernacolo, fu avvicinato dalla suora che fungeva da economa. “Padre, gli disse, non ci sono più provviste e mancano i soldi”. “Non avete proprio più nulla, sorella?” incalzò il Cottolengo.
“Ho solo questa monetina in tasca; eccola”. “Buttate anche quella dalla finestra; e poi attendete!” La suora, sbigottita, ubbidì. Sapeva bene quali convinzioni nutrisse chi le stava intimando quell’ordine. Era la Divina Provvidenza il suo pallino! E la Provvidenza gli fu fedele. Non appena la suora economa ebbe richiusa la finestra, squillò il campanello dell’ingresso. C’era un carro lì fuori. Attendeva di scaricare viveri per ricoverati nella Casa del Cottolengo. Concluse don Giuseppe: “Anche noi, come il Cottolengo non abbiamo nulla, ma ci occorre l’aiuto Divino per realizzare un sogno, una grande, impellente necessità. Il nostro oratorio deve diventare più grande. S.Giuseppe che era pur povero e riuscì a provvedere alle necessità della Sacra Famiglia, essendo ora patrono del nostro oratorio ci otterrà dalla Provvidenza gli aiuti necessari a realizzare il nostro sogno.
Avremo presto perlomeno un campo in cui giocare un po’ meglio e non stare così stretti in un cortile “troppo piccolo”. Al di là dell’oratorio, sia verso est sia verso sud, c’erano solo dei campi, campi coltivati che si estendevano giù fino alla Cappelletta. I più prossimi appartenevano ad un certo Magni che abitava in curt di Bunfont, in centro paese. Era soprannominato Chinòta. Da lui, don Giuseppe ottenne un primo lotto di terreno, quello verso sud. Effettuato l’acquisto, furono demoliti i portici che confinavano con esso; e iniziarono i lavori. Soldi non ce n’erano; però, finita la guerra, c’erano tanti giovani disponibili e non di rado ancora sprovvisti di un lavoro fisso. Fatti bene i conti, organizzato un comitato, fu acquistato del materiale sfuso, di poco costo quindi. Fu ottenuta in prestito una macchina per fabbricare “bolognini” e ben presto la nuova mura di cinta segnò altri confini per l’oratorio che, se non altro, ebbe a disposizione un campo in cui i ragazzi potevano spaziare meglio e organizzare anche qualche partita di calcio che prima d’allora era possibile effettuare unicamente presso il campo sportivo appannaggio dell’AUDACE. Era il primo passo. Infatti don Giuseppe ottenne da Chinòta altri successivi lotti di terreno. A buon prezzo, sintende; e con l’intenzione di provvedere in breve ad una ristrutturazione dell’intero fabbricato dell’oratorio. Se non altro iniziò ad ampliarlo procurando una nuova abitazione per sè, e rendendo contemporaneamente disponibili alcuni locali per le esigenze ormai troppo evidenti per un oratorio che fosse più aggiornato e più funzionale. La Provvidenza?!
Deve aver certamente fatto la sua parte. E non da poco!

LE NOCCIÒLE

Coll’andar del tempo riprendevano fiato alcune forme di artigianato o di supporto all’industria soprattutto alimentare.
All’Aurora, un nostro concittadino acquistava partite di nocciole da sgusciare per poi fornirle a certe industrie dolciarie.
Nei mesi estivi, gli oratoriani s’impegnarono a prelevare quintali e quintali di nocciole da sgusciare e da riconsegnare quindi all’impresario.
Così in tutte le salette centrali dell’oratorio, ormai sgombre da sfollati che avevano riguadagnato la città, schiere numerose di ragazzi si avvicendarono nelle operazioni previste per le nocciole.
Seduti per terra, armati di martelli adatti, trascorrevano interi pomeriggi a pestare nocciole, I semi, liberati dall’involucro, venivano accantonati e convogliati giornalmente all’imprenditore che li aveva forniti. Benedetti quei frutti che permettevano di racimolare qualche soldo utile per il finanziamento delle opere che apparivano ogni giorno più urgenti e più intense per rendere l’ambiente oratoriano accogliente e funzionale.

LA NUOVA CAPPELLA

Il problema di voler destinare unicamente al ruolo di cappellina un qualsiasi locale dell’oratorio era impellente, ma doveva tener conto della complessità di diversi altri problemi che la situazione postbellica andava via via proponendo.
Gli sfollati se n’erano andati. C’era un nuovo campo da pallone. Parecchi adolescenti, specie la domenica, si distaccavano per raggiungere Merate e recarsi al cinema. Situazioni nuove, dunque. Oltretutto era sorta l’ACLI e necessitava di una sede.
Di recente era stata costruita una grotta Lourdiana nel locale d’ingresso all’oratorio. Presso la grotta sostavano un attimo i ragazzi e i giovani prima d’immettersi nel portichetto che dava inizio al cortile. Una bella iniziativa per un oratorio che ormai vedeva fiorire fra l’altro i vari gruppi di Azione Cattolica. Occorrevano però nuovi spazi per attività specifiche e costruttive.
In consiglio si studiò un progetto: Eliminata pur con rammarico la grotta di Lourdes, si poteva ricavare dall’atrio una scala (piuttosto ripida in vero) che raggiungesse un piano elevato. Quindi in alto, a destra, ne sarebbe scaturita un’aula piuttosto ampia da utilizzare come biblioteca, come sala prove per la Schola Cantorum e anche per le riunioni del consiglio e delle associazioni cattoliche. A sinistra poteva essere edificata una tribuna che consentisse maggior disponibilità di posti per il teatro o… per un eventuale cinema. In un angolo della tribuna era infatti prevedibile una cabina di proiezione. L’ingresso all’oratorio maschile sarebbe stato spostato al posto del corridoio in cui era contenuto l’altare vecchio; e in luogo attiguo avrebbe trovato posto un piccolo bar per il ristoro degli Aclisti. Contemporaneamente, due sale dell’ala ovest e il portichetto inerente sarebbero stati unificati per dar luogo alla nuova cappella. Inoltre, la presenza dei costruttori avrebbe pure consentito di edificare gli spogliatoi per i giocatori di pallone. Facile a dirsi, men facile a farsi: ma di fatto la realizzazione avvenne.

È la canzone che cantavano tutti in coro, insieme all’altra: “Salve o sposo benedetto della Vergine Maria”

Salve Pater Salvatoris
salve custos Retemptoris
Joseph ter amabilis
Dulces cunae, dulces panni
dulces dies, dulces anni
dum nutristi Dominum
O quant fuit admiranda
tua vita veneranda
habens Dei Filium

Tradurla? Non ce n’è bisogno. La comprendevamo tutti benissimo allora!
Nei mesi estivi di quegli anni i lavori procedettero di buona Iena. E l’oratorio ebbe la sua cappella; questa volta ben arredata, decorata con affreschi prodotti dagli stessi oratoriani e con un quadro (invece della statua) raffigurante S. Giuseppe con il bambino Gesù fra le braccia.
Bella la cappellina; raccolta, sufficiente ad accogliere a doppio turno giovani e ragazzi, ma senza più l’impiccio di riadattare panche e sedie ora per gli spettacoli, ora per le funzioni religiose. Li dentro si continuò ancora per anni a celebrare la messa il giorno di S. Giuseppe sia pure destinandola ai soli oratoriani, ma con maggior compostezza e senz’altro con un più motivato raccoglimento e con più evidente devozione.

IL CINEMA

Le prime proiezioni richiamarono gran folla. Ne erano tutti entusiasti. Nel pomeriggio d’ogni domenica, e anche il sabato talvolta, venivano effettuate le prenotazioni dei posti.
La sera c’era il tutto esaurito. Povero, anche malandato l’arredamento primitivo: lo stesso che veniva usato da sempre per il teatro. Alle pareti: grandi cartelloni pubblicitari per i prossimi films. Recavano le scritte: PROSSIMAMENTE, IMMINENTE.
Gli spettatori però sollecitavano notizie più precise. Reclamavano date certe. I responsabili si schermivano: “E colpa della S.Paolo film”. In effetti le richieste erano tante. Ogni sala cinematografica parrocchiale faceva a gara per ottenere le pellicole di maggior effetto. Erano pellicole a passo ridotto, ma per chi non aveva mai avuto nulla, sembrava un sogno poter dire: “Sono andato al cinema!”. Così ci andavano intere famiglie, gruppi di ragazzi, squadre di forestieri. Il pubblico si abituò a riconoscere gli attori principali. Si scoprirono i vari fans. Insomma nacque il tifo per i divi del Cinema. Sulla bocca dei più assidui, magari storpiati per l’inesistente cultura di lingua straniera, venivano pronunciati i nomi di Greer Garson, Walter Pitgeon, Gregory Peck, Ava Gardner, Clodette Colbert, Barbara Stenwie, Bette Davis, Spencer Tracy, Tyron Power e quant’altri erano allora in voga.
Ben presto però, scoppio un inaspettato conflitto. Alla messa delle 8,30 di una domenica, Don Francesco mise in guardia dal pulpito soprattutto i genitori. Veramente ce l’aveva col cinema in genere che a suo parere influiva negativamente nell’educazione dei giovani e sottolineò che non era bene frequentare troppo assiduamente neppure il cinema dell’oratorio; perchè - disse - certe immagini e certi atteggiamenti potevano incidere negativamente sul comportamento di giovani poco avveduti. Il contenuto di questa predica riferito immediatamente a don Giuseppe da alcuni uditori, creò inevitabilmente alta tensione. L’assistente dell’oratorio che prima d’ogni proiezione s’impegnava con alcuni a revisionare in precedenza le pellicole producendovi anche dei tagli se lo si riteneva opportuno, si sentì ingiustamente diffidato.
Fu necessario un chiarimento sia da parte del Parroco sia da parte di quegli uditori che, ridimensionando l’accaduto, riuscirono ad impedire il troncamento di un’attività culturale che altrimenti avrebbe potuto sparire dalla nostra comunità, con evidente rammarico di quanti ormai vi si erano affezionati e appassionati non indifferentemente.

QUARTA DOMENICA DI SETTEMBRE: FESTA DI SAN LUIGI

Nel 1930, allorchè don Francesco istituì questa festa per la gioventù maschile, la concepì come traguardo di un itinerario formativo della durata di sei settimane. In pratica si partiva dalla domenica successiva alla festa dell’Assunta e, attraverso pratiche prevalentemente liturgiche, si giungeva a celebrare una festa in oratorio, in grande allegria e gioiosa armonia. Alla processione che conduceva all’oratorio partecipava tutta la popolazione. Era una processione solenne con i confratelli in divisa, candelabri delle grandi occasioni, la Banda…
Insomma: una festa coi fiocchi, con tante gare e tanti giochi da trattenere la gente fino a tarda sera. Comunque, la festa di S.Luigi non ha mai sostituito quella per S.Giuseppe. Ricorderanno in molti, infatti, che dal 10 al 18 marzo, si teneva in parrocchia la novena di S.Giuseppe alla quale partecipavano un’infintà di ragazzi e giovani dell’intero paese. Per S.Luigi, però, si puntava a celebrare in tutti i suoi aspetti migliori le caratteristiche della autentica vita oratoriana. Venivano infatti premiati pubblicamente coloro che si erano distinti nello studio del catechismo. Quanti invece potevano sentirsi orgogliosi di un’assidua frequenza ne raccoglievano i frutti cimentandosi vittoriosamente nelle gare e nelle manifestazioni preparate con tanta cura e dedizione. La cornice dell’oratorio per quei tempi poteva apparire sbiadita in confronto ad oggi, ma la gioia, l’impegno, la disponibilità e l’entusiasmo coronavano una manifestazione in una evidente immagine di fede e di baldanza giovanile. Durò così anche con don Giuseppe. Anzi, quanto a sportività e impegno ci fu un apprezzabile incremento. La mutata situazione sociale, tuttavia, indusse a ridurre i tempi destinati alle manifestazioni religiose (6 domeniche) e consigliò di concentrare la preparazione morale e spirituale alla festa in una tre sere per giovani, che li vide sempre numerosi e convinti. Interlocutori di grande prestigio intrattennero infatti l’uditorio nel corso degli anni con immutata attenzione e partecipazione attiva. Poi, durante la festa: tutti accaniti sostenitori della corsa con i cerchi, della corsa nei sacchi, nella gara delle pignatte, nel salto all’oca. Qui va fatto un appunto. Faceva un po’ senso vedere quel bianco volatile penzolare dalla carrucola e venir aggredito nel salto da voluttuose mani protese ad afferrarla per appropriarsene. Tuttavia va pure segnalato che il salto all’oca si concludeva in ben poco tempo, perchè vi concorrevano degli spilungoni che non tardavano a raggiungere il loro scopo nel giro di solo qualche attimo, fra l’entusiasmo della marea di spettatori presenti. E poi, la pesca di beneficenza offriva a tutti l’occasione per tentare un pochino la sorte a loro volta.
E allora, verso l’imbrunire, si rendeva ben visibile il rientro a casa di una moltitudine che recava fra l’altro in braccio i bimbi più piccoli e un agognato trofeo acquisito con un biglietto pescato nei vasi della fortuna a cui S.Luigi aveva assicurato anche la propria benevola propiziazione.

LA FESTA DELLA MAMMA

Non in maggio come viene pubblicizzato adesso, ma in febbraio-marzo; una domenica dopo il quaresimale che si teneva in chiesa verso le 15. Poi, una fiumana di madri d’ogni età confluiva nel salone dell’oratorio. I ragazzi non c’erano già più. Del resto non venivano ammessi ad ascoltare ciò che don Giuseppe aveva da dire alle mamme spesso proprio in rapporto al comportamento e alla educazione dei loro figli. Le mamme non si radunavano così per convenienza o per semplice condiscendenza ad un invito di tipo confessionale. Tutt’altro; era un incontro atteso, sollecitato quasi! Dopo il discorsetto del sacerdote, era un susseguirsi di osservazioni, di obiezioni, di quesiti rivolti a ricercare la soluzione a tanti e tanti problemi che già allora investivano il campo dell’educazione familiare e non di rado i rapporti con la parrocchia; in particolare con l’oratorio. Erano veri momenti di dialogo costruttivo quelli che intrattenevano tanta parte della maternità osnaghese.
C’era infine un intrattenimento teatrale o una piccola accademia che riscuotevano particolari consensi. Solitamente erano caratterizzati da argomenti inerenti a eminenti problemi d’attualità educativa. E al termine, un po’ commosse, parecchio coinvolte, sicuramente incoraggiate nel loro compito educativo, le madri lasciavano l’oratorio quasi con nostalgia. Certamente pregustavano già l’incontro che l’assistente oratoriano dei loro figli avrebbe nuovamente prediposto per il prossimo anno. Ed iniziavano preventivamente a prefigurarselo con evidente e provvida ansia.

L’ORATORIO FERIALE

La domenica: beh, per la catechesi, per le riunioni di associazione, per il teatro o per il Cinema, ma nei giorni feriali quale fu la funzione dell’oratorio?
Soprattutto in primavera ci si ritrovava insieme per la preparazione alla Prima Comunione, in seconda elementare; per la comunione solenne, in quinta; e ogni quattro anni c’era la preparazione alla cresima, in grande stile. Vi partecipavano ben quattro leve scolastiche. Era la dottrinetta; e veniva replicata talvolta anche in autunno, secondo la data in cui sarebbe avvenuta la visita pastorale dell’Arcivescovo.

Però l’oratorio feriale, quello estivo, era tutt’altra cosa. AI mattno si provvedeva ai compiti delle vavcanze sotto la guida di qualche giovane. Al pomeriggio c’erano varie attività, talvolta organizzate, tal altra affidate alla libera iniziativa e alla creatività personale. Non di rado ci si accordava per gruppi. C’era chi giocava a carte, chi alla lippa, chi a palla avvelenata, chi infine (specie dopo le piogge) si divertiva aggregandosi ad impastare palline col fango e a lasciarle in cottura sotto il sole scottante di luglio e agosto. Naturalmente quest’attività somigliava moltissimo alla tela di Penelope. Infatti, queste piccole bocce, subito, al primo lancio si frantumavano senza eccezione. E allora bisognava ricominciare daccapo. Quando il tempo era incerto, intervenivano i chierici che si trovavano in vacanza: a volte, c’intrattenevano con i burattini.
Spesso, però, allestivano qualche recita straordinaria di grand’effetto. Ne ricordo tre in particolare: “La cosa più bella del mondo” e “Alla corte di Re bomba” con la regia di don Ernesto Casiraghi. Vi erano coinvolti però anche parecchi giovanotti e qualche adulto. L’altra era “I ragazzi della Via Paal” sotto la guida di don Gaetano Sirtori. Insomma, non c’era verso d’annoiarsi all’oratorio feriale. Tutt’altro!
Oltretutto per qualche anno attornc al ‘48 si rivelò molto utile la piccola moto Guzzi che era stata regalata a don Giuseppe.
In quegli anni, raggiungendo spesse volte certe organizzazioni Comasche, don Giuseppe ebbe occasione d’ottenere con i suoi viaggi in Guzzi parecchi vantaggi per il suo oratorio feriale. Ci fu la possibiltà di una mensa interna. Per tutti un buon primo piatto caldo e anche un secondo piuttosto consistente.
Erano tempi in cui nessuno storceva la bocca dinanzi ad una scodella di minestra fumante. Era ancora troppo vivo il ricordo di una guerra che aveva fatto soffrire parecchio la fame. Quindi era provvidenziale la possibilità di trovare in oratorio un buon pasto caldo senza la necessità di andare avanti e indietro da casa, sotto il solleone.
La cucina era affidata alle suore, nell’asilo che, allora, confinava con l’oratorio. E così si rimaneva in oratorio dalle 9 del mattino alle 5 del pomeriggio, grazie all’intraprendenza e al “güssett” di don Giuseppe.
Del resto proprio per i mesi estivi era lo stesso sacerdote ad accertarsi della possibilità d’inviare ragazzi alle colonie marine e montane gestite daIl’ACLI e dalla Bonomelli. Le necessità più impellenti in questo senso venivano accertate proprio all’oratorio feriale. Ricordo che ogni tanto venivano compiute delle rilevazioni; ci pesavano, raccoglievano dati, somministravano qualche medicinale con l’aiuto di un medico. Insomma, quest’oratorio, per quei tempi, era una manna del cielo; senza alcun dubbio. E soprattutto a vantaggio di quanti altrimenti, non avrebbero avuto altre risorse.

SPENSIERATEZZA SI, MA ANCHE...

D’estate, il tifo si prendeva spesso la vita di qualche giovane, di qualche ragazzo anche in tenera età. Allora l’oratorio veniva pervaso da un senso di sgomento, di tristezza. Ai funerali c’era una marea di ragazzi ad accompagnare per l’ultima volta i loro coetanei.
Era una partecipazione composta, seria, raccolta.
Nel camposanto, Carlo Ponzoni, Carlon, era solito tenere un discorsetto a voce alta. Erano momenti di alta commozione. Li, presso la bara, tra i parenti spesso in lacrime, il levarsi della voce di Carlo aumentava il cordoglio. Data la consuetudine, l’intervento era anche atteso, ma... Nessuno sapeva trattenere le lacrime. Ricordo ad esempio il discorsetto per Aldo Bonfanti scomparso poco più che decenne.
”Aldo, ti ricordi di quando mi saltavi sulle spalle ridendo felice per avermi sorpreso di colpo?
Ora non sentirò più le tue mani, il tuo sorriso, la tua gioia. Però, Aldo, ricordati ancora di noi; dei tuoi compagni, degli amici con i quali hai trascorso all’oratorio tante ore indimenticabili!”
Era il saluto del prefetto dell’oratorio d’allora. L’addio di colui che, pur quarantenne, trascorreva l’intero pomeriggio domenicale con i ragazzi, dopo averli aiutati la mattina a partecipare attentamente alla santa messa delle dieci o dopo aver fatto con loro il preparamento e il ringraziamento alla comunione delle grandi solennità. C’era posto anche per questo nell’ambito della vita oratoriana, sull’esempio di don Bosco che veniva considerato il fondatore degli oratori; e di cui, dal 1948, fu presente una statua, in cappella. In segno di grande devozione e riconoscenza.

VERSO IL DECLINO PER UNA NUOVA AURORA

Partito don Giuseppe neI 1962, arrivò tra noi don Piero Mozzanica e, in seguito, don Mario Papa. Furono tempi di transizione. L’esperienza iniziata in quell’ambiente dal 1911 finì col concludersi attorno al 1975 allorchè, sotto la guida di don Marco Ferrari, si provvide alla demolizione del vecchio stabile per passare all’attuale Centro Parrocchiale.
Fatto un immenso falò delle vecchie suppellettili e, purtroppo, anche di ciò che avrebbe potuto documentare un passato non trascurabile della vita osnaghese, si pensò a progettare nuove impostazioni. Un comitato di intenditori affiancò il nuovo parroco nella realizzazione dell’opera che è ben visibile agli occhi di tutti per efficienza e per prestanza.
Ma le radici, è bene che tutti se ne convincano, le radici risalgono al 1911. Allora c’era ben poco, ma l’amore per l’oratorio animò la buona volontà a produrre fruttuose opere cristianamente positive in ogni senso.
Ora c’è molto di più; e allora: Coraggio e Auguri!!

L’ORATORIO FEMMINILE

Almeno un breve cenno è d’obbligo, dopo tutto quanto è stato esposto sull’oratorio maschile. Anche l’oratorio femminile ha una sua importanza ed ha avuto una propria storia degna d’interesse. Non ne ho avuto diretta esperienza se non negli anni in cui frequentavo la prima e la seconda elementare, allorchè anche per noi maschietti era prevista la frequenza presso l’oratorio femminile. Ricordo che, sebbene piccini, ci sentivamo un poco a disagio. Immaginavamo che in quello maschile che ci stava dirimpetto avvenissero chissà quali affascinanti attività.
La radiola che dal suo tetto c’inviava i rintocchi delle campane della basilica di Desio, incise su disco, ci metteva addosso un’ansia tutta speciale di poterci trovare presto coi nostri compagni più grandi.
Comunque: l’oratorio femminile era stato edificato su iniziativa di don Emilio Figini attorno al 1920. Don Emilio, giunto tra noi nel 1912, incontrava le ragazze per la catechesi festiva nell’asilo infantile che confinava con l’oratorio maschile, in Via Gorizia. Insieme ad esse attendeva che i ragazzi uscissero dal loro oratorio. Solo allora poteva subentrare col folto gruppo femminile nel salone - cappella per la catechesi e la funzioncina loro riservata. Appariva dunque indispensabile che le ragazze avessero al più presto a disposizione un loro oratorio esclusivo.
Così il parroco invitò tutte quante a devolvere i loro risparmi per contribuire alla sua edificazione; acquistò del Terreno dirimpetto a quello destinato ai maschi e provvide a realizzare il nuovo progetto. Era un fabbricato monoblocco, al pianterreno. Una grande sala con all’apice un altare transennato da due brevi balaustre. All’interno, veniva svolta la catechesi ogni domenica: prima per le più giovani e poi per le signorine. Ogni tanto, la sala veniva utilizzata per delle brevi giornate di ritiro spirituale. In quelle occasioni, veniva celebrata la messa, al mattino. E poi se la stagione era propizia, le giovani potevano liberamente circolare in meditazione per l’ampio cortile circostante che era confortato dall’ombra ristoratrice e dal gradito profumo di numerosi tigli. Andò così fino al 1958, anno in cui venne inaugurato il nuovo asilo in Via Donizetti. Lo si deve alla tenacia e alla lungimiranza di don Francesco se Osnago potè realizzare anche questa importante opera parrocchiale. Da allora in poi e ragazze tornarono ad abbinare la sede dell’oratorio a quella dell’asilo infantile. Questa volta, però, in una sede nuova e spaziosa che non fece certamente rimpiangere la vecchia sede che fra l’altro fu ampliata e trasformata per accogliere il Circolo ACLI, ora circolo parrocchiale. Tuttavia sono ancora molte le persone, ormai nonne o madri di famiglia, che rammentano le lunghe ore dei pomeriggi domenicali trascorse giocando a palla prigioniera, ad avvicendarsi nel salto della corda manovrata ai lati da esperte tempiste capaci di variare il ritmo a piacimento. In molte ricordano le cordiali chiacchierate con i parroci Figini e Gariboldi che si intrattenevano volentieri in loro compagnia fin che il crepuscolo consigliava l’interruzione per il rientro in famiglia. Buona parte della cittadinanza osnaghese ricorda ancor oggi che il salone dell’oratorio femminile era stato trasformato in camera ardente per accogliere le spoglie mortali di don Emilio Figini nei giorni che seguirono la sua morte. Era l’anno 1939.
Sede nuova, maggior cultura anche per le ragazze di oggi. Minor divisione fra i due oratori; quindi maggior possibilità di collaborazione e di integrazione. Se sono rose... Viva gli oratori, dunque Speriamo!

- scritto nell'anno 1995 -

Autore del testo

Alfredo Ripamonti
Note sull'autore

Alfredo Ripamonti

Avvia gli studi per diventare sacredote, poi intraprende la carriera di maestro delle Scuole Elementari.

Da sempre al servizio della parrocchia; in particolare segue con cura e devozione le funzioni religiose.

E' autore di innumerevoli testi e racconti, molti dei quali narrano la storia e le vicende della nostra Parrocchia e del nostro Paese.
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