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Martedì 19 Marzo 2024
Parrocchia S.Stefano
di Osnago
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Don Francesco Gariboldi

"Ul mé dun pacifec". Così l’appellava don Figini. Evidentemente ne possedeva una convinta stima incondizionata. L’aveva avuto con sè dal 1923. Ne aveva sperimentato la profonda umiltà, l’indiscussa ubbidienza, la incomparabile saggezza e soprattutto la pazienza anche nel sottomettersi alle sue pur memorabili intransigenze. Evidentemente tutte queste considerazioni l’avevano indotto a rispondere a don Francesco che stava al suo capezzale e gli chiedeva: "Don Emilio, si ricorderà di me, quando sarà in cielo?". "Come posso non ricordarmi di chi mi è stato al fianco con tanta dedizione?!". In effetti lascerà poi al Cardinal Schuster una richiesta perentoria: "Il mio successore deve essere don Francesco.
Nessun altro. Se lo merita!". E don Francesco, nel settembre di quello stesso anno divenne nostro parroco. Chi ha detto che a raggiungere il record di permanenza in parrocchia deve essere stato don Redaelli, probabilmente non ha tenuto presente che don Francesco è stato sì parroco per soli trentatrè anni, ma è stato nostro assistente della gioventù maschile per quasi diciassette anni, in precedenza; e rimase con noi per altri cinque anni dopo la sua rinuncia avvenuta nel 1972. Morì infatti tra noi nel febbraio 1977. In tutto circa cinquantacinque anni, dunque. E fu l’ultimo parroco a restare fra noi “vita natural durante”. Prima di giungere a Osnago come coadiutore aveva avuto esperienza come cappellano militare e quindi come sacerdote nella Bassa Milanese. Quella permanenza gli fece purtroppo sperimentare un ambiente naturale insidioso per chi non vi è abituato. Contrasse infatti dei malanni che lo indussero a ricoverarsi per qualche tempo in un istituto elioterapico, a Bussana, in riviera.
Da lì, la sua nuova sede fu nel nostro oratorio maschile. In oratorio s’impegnò con gran fervore nell’educazione dei ragazzi e dei giovani. Non era un grande parlatore, don Francesco, ma era dotato di profondo contenuto dottrinale. Sempre pronto all’ascolto, attento al dialogo, consapevole della realtà sociale che lo circondava, si dedicò fra l’altro anche a vere e proprie attività di alfabetizzazione e di ampliamento della preparazione culturale dei giovani. Ereditò da don Emilio una formazione ormai sperimentata di qualche compagnia teatrale e ne valorizzò le prestazioni. Possedeva anche una invidiabile cultura linguistica. Conosceva perfettamente la lingua francese e quella tedesca. Non lo dava assolutamente a vedere, ma si accostava con interesse a diverse pubblicazioni provenienti d’oltralpe. Approvò e incrementò la biblioteca parrocchiale ch’era stata allestita dal parroco Figini. Non era molto intonato, ma conosceva bene la musica. Si affiancava volentieri a chi sapeva cantar bene e, scherzosamente commentava: "Voi siete la voce e io sono l’ombra". Don Francesco dava del voi a tutti, anche ai ragazzini, tanto era rispettoso. Ed evidentemente ne veniva ricambiato. Di fronte a tante virtù, come poteva don Figini non designarlo come suo successore?! E così avvenne.
Il suo insediamento come parroco fu un tripudio. In effetti, dopo oltre sedici anni di permanenza in paese, tutti erano convinti che egli dovesse essere l’erede naturale della missione pastorale di don Figini, anche se non era affatto usuale che il coadiutore succedesse al parroco defunto. Anzi! Raccontava però lo stesso don Francesco che aveva pur dovuto sottoporsi formalmente al Concorso per diventare nostro parroco. Sapeva comunque di certo che la segnalazione di don Figini era stata più che accreditata. Tra i candidati al medesimo concorso c’era un sacerdote che, sapendo che lui proveniva da Osnago, gli si era accostato per acquisire notizie dirette. Dopo averle ottenute, esclamò: "Dev’essere davvero il mio paese ideale! Avrei proprio bisogno di avere una penna che sappia scrivere veramente bene, oggi!". E don Francesco: "Sentite, se volete ve la presto io!". Possedeva infatti parecchia ironia, don Francesco. Di fronte a una signora che se n’era uscita con una esclamazione perentoria: "S’hem de stà chi a fa’ a ‘stu mund inscì malament?", il parroco aveva replicato: "Eh, l’è mèi stà chi püssee che se pö, perchè l’Eternità l’è lunga, l’è lunga". Passava moltissime ore in confessionale. Entrando in chiesa lo si vedeva spesso in preghiera sul suo inginocchiatoio (brelin) presso l’altare della Madonna Assunta. Al mattino, la prima messa, quella delle sei, era la sua. Talvolta, giungeva in sagrestia con qualche attimo di ritardo. "Me sunt impaiaa un poo, stamatina. Nem a svelta; se no fem tardi!".
Aveva una cura straordinaria per i sacri paramenti. Li custodiva con immensa cura. Sapendo di possederne alcuni datati da qualche secolo, s’era adoperato per farli riparare, farne trasporre i ricami su tessuto nuovo perchè durassero nel tempo, tant’erano preziosi. Avesse immaginato che ora sono relegati negli armadi, forse per sempre! Ricordo che una vigilia dell’Assunta (allora nelle vigilie si usavano i paramenti viola) io e quello che poi divenne don Mario Casiraghi avevamo predisposto, fin dalla sera precedente, la pianeta viola che si usava nelle domeniche. Marchin, il sacrestano, aveva sentenziato: "Voi due andate incontro a dei dispiaceri!", "No" rispondemmo, "In fin dei conti è la vigilia del festone del paese!". Tant’è; ci lasciò fare. Del resto, a distinguere quella pianeta festiva da quella feriale appariva soltanto uno spaccato damascato in oro. Pensavamo che il parroco non se ne sarebbe neanche accorto. La mattina, eravamo presenti. La santa messa, come ogni anno, sarebbe stata celebrata all’altare dell’Assunta. Don Francesco indossò il camice, il cingolo, si mise l’amitto, si fece assicurare il manipolo al braccio sinistro, incrociò la stola sopra il petto... e tutto sembrava andar liscio.
Come scorse la pianeta da indossare si sorprese, sbottò, inveì contro il sacrestano: "Che pianeta hai preparato? Questa è quella della festa. Tira fuori l’altra, per piacere!". Marchin si schermì: "Sono stati i miei aiutanti a preparare, ieri sera. Io li ho avvertiti che non andava bene così. Loro han detto che in fin dei conti...". E lui, rivolto a noi con accento di rimprovero: "I paramenti vanno utilizzati con parsimonia. Altrimenti si rovinano presto. Li date voi dopo i soldi per le riparazioni? Lo sapete quanto costa ripararli?". E cambiò pianeta.
Nelle solennità, lo aiutavamo a trasportare in sagrestia gli apparati per “i revestii”, ossia per il celebrante e per gli altri ministranti. Accettava il nostro aiuto, ma doveva essere presente lui a garantire la scelta più rispondente alla celebrazione. Per la cronaca, la parrocchia dovrebbe possedere ancor oggi quattro apparati completi di color bianco, tre apparati di color rosso, un apparato di color viola e due apparati di color nero, oltre ad alcune pianete isolate per tutti e cinque i colori liturgici allora in uso. Si potrà obiettare che fossero troppi. Bisogna però ricordare che, allora, le messe celebrate solennemente con celebrante, diacono, suddiacono, assistente ed altri avvenivano con una certa frequenza. E quindi non mancavano le occasioni per variare le scelte. E don Francesco, sulle orme di don Figini, amava decisamente le variazioni. Certamente a lustro delle cerimonie liturgiche. Come non mancava mai di invitare per le solennità sempre sacerdoti forestieri o benemeriti. Tanto che la sua collaboratrice domestica andava sentenziando: "Ai bèi fèst, o che gh’è vün o che gh’è l’alter. Lüü l’è ul stòpaböcc". Intendeva sottolineare che, nella sua modestia, don Francesco preferiva farsi da parte, anzichè esporsi in prima persona. E lei non condivideva. Le campane. Quant’ebbe a soffrire don Francesco quando le due campane maggiori furono requisite per eventi bellici, durante la Seconda Guerra Mondiale! Esigette una ricevuta per poterle reperire, nel caso non venissero fuse. E la sorte lo favorì. A guerra ultimata se le andò a recuperare, sborsando anche soldi a borsa nera.
Era amico del senatore Falck. E attraverso quest’amicizia, ha procurato il posto di lavoro a diversi nostri compaesani.. Attento com’era alle condizioni sociali della nostra gente è intervenuto più volte a sanare situazioni di povertà e di precarietà. Dietro un’apparente indifferenza nascondeva una grande sensibilità verso la miseria umana. Ricordo che di fronte ad un suicidio dovette prendere una risoluzione nient’affatto facile. Allora vigeva una norma perentoria: "Negatur ecclesiastica sepultura...". Egli decise così: "Sarò trasgressivo, ma io preferisco affidare quest’anima alla Misericordia divina.". Ad indicare il funerale fece rintoccare una sola campana. Le esequie si svolsero quindi quasi in segreto. A seguire il feretro c’erano solo una quindicina di persone; un corteo muto. Al cimitero, don Francesco, benedicendo per l’ultima volta la salma si commosse visibilmente. E poi s’allontanò in tutta fretta, forse per non farsi sorprendere in lacrime.
Amava molto i bambini. Nell’ultimo anno della sua azione pastorale, sebbene gravemente ammalato, volle distribuire lui la prima comunione. Era la leva del 1963. Sotto i paramenti, apparivano malcelati i risvolti di un pigiama. Commuoveva. Dal 1940 ebbe come coadiutore don Giuseppe Sironi. Una collaborazione che durò ben ventidue anni. Ci fu un tempo in cui, su segnalazione di un parroco cugino di don Giuseppe, il Cardinal Schuster invitò appunto don Giuseppe a diventare parroco di una parrocchia della bassa milanese: Buffalora Ticino. Don Francesco conosceva quella zona e sconsigliò decisamente il coadiutore a compiere quella scelta. Di fronte alle insistenze, don Francesco si recò personalmente a colloquio con il Cardinale. Non era sua abitudine, ma sbottò: "Sono venuto a chiedere che cosa ha fatto di male il mio coadiutore per venir costretto ad assumere la parrocchia in un ambiente malsano come quello che gli vien proposto!". "Calmatevi, don Francesco, calmatevi. Nessuno vuol costringere don Giuseppe a ubbidire... Vista la vostra contrarietà, vediamo di soprassedere...". E don Giuseppe restò a Osnago per almeno un altro settennio.
Amava la musica ed apprezzava grandemente le impeccabili esecuzioni corali. Allorchè s’accorse che il vecchio organista Viscardi (cieco, di Cernusco, che per anni aveva provveduto sia ad accompagnare all’organo le sacre funzioni, sia a partecipare alle preparazioni dei canti per le varie festività), stava ormai perdendo la possibilità di continuare le sue prestazioni, si premurò di preparargli un sostituto. Indirizzò alla musica un giovane dell’oratorio: Giovanni Maggioni che, in seguito, assicurò alla parrocchia un servizio continuativo per quasi mezzo secolo. E i risultati di tali interventi sono apprezzabili ancor oggi. Le visite ai malati, soprattutto a quelli teminali, che don Francesco praticava molto di frequente lo consigliarono ad applicare alla sua bici un piccolo motorino. Diceva: "Divento vecchio anch’io e certe strade con salite ripide incominciano a pesarmi". A dir il vero, usava molto poco quel motorino. Ma ai malati non lesinò mai il suo conforto. Questo lo faceva apprezzare assai dalla popolazione. Tanto che don Piero Cecchi allorchè ristrutturò la curt dei Maregnott, trasformandola in casa di accoglienza, ebbe a dire: "Intendo intitolarla a don Francesco perchè mi sono accorto, visitando le famiglie, che non manca in nessuna casa una sua fotografia". E così avvenne.
L’interesse di questo parroco per l’infanzia fu proverbiale. L’asilo infantile, allora era Ente Morale della Provincia di Como. Era l’edificio di Via Gorizia. L’asilo vi funzionava fin dalla fondazione. Don Francesco però covava il desiderio di edificare un asilo parrocchiale, più funzionale. Cercò un terreno adatto. Lo chiese in un primo tempo ai Galimberti. Avrebbe voluto che sorgesse dove in seguito si stabilì la ditta Morell. Non ottenne quel terreno.
Gli venne in aiuto il Conte Franco, che gli cedette l’appezzamento su cui nel 1953 fu edificato l’attuale complesso. Fu parecchio osteggiata la scelta di don Francesco. Voci di dissenso sulla ubicazione dell’asilo furono forti e insistenti. Il parroco proseguì nel proprio intento e il tempo gli accreditò buona ragione. L’asilo attuale, sia pure con gli inevitabili aggiornamenti, è vitale e funzionale. Purtroppo non gli fu altrettanto favorevole la possibilità di condurre a buon fine la costruzione di una nuova chiesa.
Quel progetto, recepito dal suo predecessore, rimase appeso a lungo in fondo alla nostra chiesa parrocchiale. Per quell’obiettivo erano già stati raccolti dei fondi, preparato il terreno, interessati gli operatori; la guerra scoppiata nel 1940 vanificò ogni spe- ranza. L’inflazione altissima prosciugò ogni deposito. Il buon don Francesco, a malincuore, si arrese. Utilizzò i fondi esigui per l’acquisto di quegli artistici candelabri in bronzo che ornano normalmente il nostro altare maggiore. E sono essi, unitamente alla croce con il piedistallo raffigurante dei militi a ricordarci questo parroco che, amato e stimato da tutti, si allontanò da noi in punta di piedi per raggiungere quel premio eterno che l’Onnipotente non avrà certo mancato di accreditargli per sempre. Sua comunque è stata l’idea di dotare la nostra chiesa di un primo impianto di riscaldamento. E’ stato in quell’occasione che vennero alla luce alcune sorprese. Sotto l’altare maggiore, dopo l’abbattimento di un muro per l’installazione delle caldaie, apparve un luogo di sepoltura dei vecchi parroci o di qualche fabbriciere privilegiato. Un fatto decisamente strabiliante, senza dubbio.
Non meno di quanto sia avvenuto di recente per il rifacimento della pavimentazione della chiesa. Veramente, una ripavimentazione dell’altare maggiore e degli altari laterali era già avvenuta attorno al 1970-71 quando don Francesco provvide alla sistemazione dell’altare secondo i dettami del Concilio Vaticano II°. Fu preservato da interventi del genere il solo altare della Vergine Assunta. In effetti, pavimento e fregi presso questo altare risultano tuttora di particolare effetto, intatti e ben conservati. Può essere utile segnalare, infine, che don Francesco, durante la sua attività pastorale ebbe ad accogliere ben quattro volte il Cardinal Schuster in visita alla parrochia. Ricevette quella del Cardinal Montini (Paolo VI°) nel 1956 e quella del Cardinal Colombo nel 1968. Vide inoltre lo svolgersi delle Missioni parrocchiali negli anni 1946 - 1956 e 1966. E accompagnò all’altare per la loro prima messa ben tredici novelli sacerdoti.
Prima di concludere, vorrei ricordare un aneddoto. Nel 1958, durante il Conclave per l’elezione del nuovo Papa, dopo la morte di Pio XII°, si stava pronosticando su chi potesse succedergli. Si faceva il nome di questo o di quel Cardinale... don Francesco interloquì: "Non è detto che debba essere per forza un Cardinale. Chiunque può essere eletto papa. Anche un prete qualunque!". "Allora", commentò qualcuno, "Potrebbe essere anche lei, don Francesco?". "Sì, sì, certamente; se lo Spirito Santo si ubriaca, sicuramente". E lasciò tutti a bocca aperta.

- scritto nell'anno 2006 -

Autore del testo

Alfredo Ripamonti
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